Il giorno di Mattarella

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(Questo pezzo è uscito ieri su TheVision). 

“Ho fatto tutto il possibile per far nascere un governo politico.” Alle otto e mezza della sera, il Presidente Mattarella è appena entrato in sala stampa. Salvini sta già tuonando su Facebook che rivuole le elezioni; Di Maio e Giorgia Meloni si allenano a pronunciare la parola “impeachment”. Davanti alle telecamere, Mattarella racconta di come è arrivato a una decisione senza precedenti nella storia della Repubblica. La lista dei ministri presentata da Giuseppe Conte è stata bocciata e Mattarella, a domanda, conferma che la trattativa si è arenata su un solo nome: quello del ministro dell’Economia.

Il presidente è visibilmente nervoso, in queste settimane ha ingoiato diversi rospi. Ha atteso più che pazientemente che Cinque Stelle e Lega trovassero un accordo sul programma di governo e sui nomi da coinvolgere. E anche ieri sarebbe stato pronto a firmare la nomina “di un autorevole esponente politico della maggioranza,” purché non fosse “sostenitore di una linea” che avrebbe potuto provocare “la fuoruscita dell’Italia dall’euro.”Non era evidentemente il caso di Paolo Savona, l’autorevole economista ottantaduenne sul quale avevano trovato un accordo Salvini e Di Maio. Savona, che pure si considera un convinto europeista e auspica la nascita degli Stati Uniti d’Europa, con gli anni ha maturato un’opinione sempre più critica nei confronti dell’unione monetaria, e da tempo sostiene la necessità per l’Italia di un “piano B”– l’eventuale uscita, appunto, dall’eurozona. Più che di un’eventualità realizzabile, si sarebbe trattato di un avvertimento da impugnare a Bruxelles: se continuate a imporci il rigore, noi usciamo davvero. Un deterrente, un bluff, ma in economia forse bluffare non è più concesso (continua su TheVision).


È bastato ricominciare a parlare di euro perché lo spread tra i titoli tedeschi e quelli italiani si divaricasse: la nomina di Savona all’economia avrebbe aggravato la situazione in modo forse irreversibile. Questa è almeno l’opinione di Mattarella. Ieri sera ha affermato che tra i criteri che lo devono orientare nella nomina dei ministri ci sia la “tutela dei risparmi degli italiani”: un’interpretazione apparentemente innovativa delle sue prerogative costituzionali, ma Mattarella sa quello che fa: tra le altre cose è stato anche membro della Consulta. Stamattina riceverà al Quirinale Carlo Cottarelli, e probabilmente gli incaricherà di formare quel governo “neutrale” di cui già parlava venti giorni fa. Cottarelli è l’economista che produsse per il governo Letta un rapporto “per la revisione della spesa” di ottocento pagine. È difficile immaginare che intorno a lui e a un Mattarella indebolito dalla sua presa di posizione si possa formare una maggioranza in questo parlamento: ci aspetta dunque un breve governo estivo (nella prima repubblica li chiamavano governi balneari), che traghetti l’Italia verso nuove elezioni ad autunno. Del resto i comizi telefonici e telematici di Salvini e Di Maio ieri sera sono già pura campagna elettorale. Salvini, soprattutto, dà l’impressione di essersi impuntato sul nome di Savona soltanto per mandare all’aria il tavolo, ora che i sondaggi sono dalla sua parte. I Cinque Stelle sembrano più spiazzati: come se ci avessero creduto davvero, nella possibilità di diventare una forza di governo. Tornare alle elezioni per loro significa ammettere che non ne sono ancora capaci (e ridiscutere la questione del doppio mandato). Ma soprattutto, si tratta anche per loro di vedere un bluff.

Mattarella è stato chiarissimo. Lega e Cinque Stelle devono spiegare ai loro elettori se vogliono uscire dall’euro o no. “Se si vuole discuterne”, ha avvisato ieri sera, “lo si deve fare apertamente e con un serio approfondimento. Anche perché si tratta di un tema che non è stato in primo piano durante la recente campagna elettorale”. Su questo punto anche i più critici dell’operato di Mattarella abbiano poco da eccepire: se davvero vogliono proporre la fuoriuscita dall’euro, anche solo come piano B, Salvini e Di Maio lo devono spiegare forte e chiaro ai loro elettori. E invece durante tutta la campagna elettorale erano stati molto cauti sull’argomento, lasciato cadere anche nell’ultima versione del contratto di governo. Se decidessero davvero di presentarsi in coalizione, e di mantenere il nome-simbolo di Paolo Savona, le prossime elezioni equivarrebbero a un referendum sull’Euro. Ma è una possibilità abbastanza remota. Anche se hanno obiettivi comuni, Cinque Stelle e Lega sono due concorrenti che mirano allo stesso bacino elettorale. E se l’obiettivo dei 5S è da sempre al cinquantuno per cento, l’obiettivo di Salvini è più realistico: diventare la forza portante del centrodestra. C’è sulla sua strada però un ostacolo dal quale forse dipende il destino dell’Italia (e dell’Europa): Silvio Berlusconi.

Berlusconi ieri sera ha fatto sapere che “in un momento come questo il primo dovere di tutti difendere il risparmio degli italiani, salvaguardando le famiglie e le imprese del nostro Paese”. Non è solo un esplicito sostegno al presidente Mattarella, anche in questa inedita veste di difensore dei risparmi; è soprattutto un attacco a Salvini. Può sorprendere chi in questi giorni non abbia dato almeno un’occhiata ai talk di Rete4, dove di colpo l’allarme spread ha preso il posto dell’allarme clandestini. Insomma può darsi che la vera notizia di stamattina, 28 maggio 2018, sia che il Centrodestra italiano è finito; che le due forze principali che lo compongono dal 2001, Lega e Forza Italia, si sono ormai incamminati sue strade diverse e inconciliabili. Se l’abbandono dell’euro, da vaga promessa elettorale, diventa una prospettiva concreta, Berlusconi non ci sta; che Salvini possa rivincere le elezioni senza di lui, e senza l’appoggio mediatico della corazzata Mediaset-Mondadori, è quello che nei prossimi mesi andremo a scoprire. La buona notizia è che dovrebbe essere una campagna un po’ meno razzista: perlomeno le fiaccolate anti-stranieri in tv dovrebbero drasticamente diminuire.

Allontanandosi da Salvini, Berlusconi potrebbe essere tentato di puntare sull’altro Matteo, quel Renzi che sui social continua a manifestare il suo orgoglioso europeismo, e che se non riesce a riprendere il controllo completo del Pd in tempi brevi potrebbe decidere di fondare un nuovo partito – una prospettiva che non a caso sembra entusiasmare soprattutto i redattori del Foglio, autorevole palestra di pensiero berlusconiano. Renzi non è più il cavallo vincente che sembrava qualche anno fa, ma forse qualche ospitata a Pomeriggio Cinque potrebbe aiutare a farlo risalire un po’ sui sondaggi: anche perché molti altri cavalli per ora da quella parte non si vedono. Se l’Europa diventasse davvero il tema delle prossime elezioni, e Berlusconi decidesse di difenderla senza se e senza ma, in una prospettiva liberale, la distanza ideologica tra lui e Renzi diventerebbe davvero impalpabile. L’unico problema è che tra gli elettori di Renzi ci potrebbe essere ancora qualche irriducibile antiberlusconiano: ma sono pochi, ormai: e se solo Berlusconi decidesse di fare un mezzo passo si ridurrebbero quasi a zero. D’altronde è Berlusconi, e ormai si è capito che in Italia aver passato gli ottanta non è in generale considerato un buon motivo per fare neanche quel mezzo passo indietro.

Se la pregiudiziale antiberlusconiana è ormai un ricordo del passato, un’altra ben più ingombrante potrebbe sorgere all’orizzonte: la pregiudiziale anti-Putin. Costretto a correre da solo, Matteo Salvini evidenzierebbe ancora di più quei legami col partito putiniano, Russia Unita, che a ben vedere sono già ufficiali, in nero su bianco. Mattarella non ne ha parlato e forse nemmeno se ne preoccupa, ma la stampa estera sì: in Italia, uno dei membri più importanti e dei fondatori dell’Unione Europea, rischia di vincere le prossime elezioni un partito anti-euro che guarda a Mosca più di quanto guardi a ovest. Lasciamo stare se sia un bene o no per l’Italia: può succedere davvero? Per cinquant’anni in Italia la stabilità politica è nata da una conventio ad excludendum: il PCI filo-sovietico non avrebbe mai potuto governare. A partire dalle prossime elezioni forse vedremo nascere una conventio di opposto colore ideologico, ma nella stessa direzione strategica: i seguaci di Putin potrebbero vedersi esclusi dal governo malgrado i buoni risultati elettorali. Ai comunisti è successo per quarant’anni, e Salvini lo sa bene: dopotutto è stato un rosso, prima di diventare verde.

Qualsiasi cosa succederà, oggi è davvero un giorno nuovo per la politica italiana. Da oggi sappiamo che un Presidente può rifiutarsi di nominare il governo indicato da una maggioranza parlamentare; che i leghisti non bluffano, sono davvero anti-euro (oppure, se bluffano, pretendono di essere presi sul serio); che i 5Stelle erano davvero pronti a governare, e oggi sono davvero delusi e arrabbiati per non esserci riusciti; e che ormai tutto è in discussione: l’Unione Europea, la Nato, tutto. Viviamo in tempi interessanti, tanto per cambiare.

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Chi vuol essere Presidente

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Stavo pensando che tutto sommato non si sta poi così male così, e se siete d'accordo si potrebbe anche andare avanti per un po'...

ANNO IV DELL'ERA GENTILONI

Drin Drin

"Pronto".

"Pronto, qui è la segreteria della Presidenza della Repubblica. Parlo col signor Abrami Davide?"

"Oh cazzo".

"Deve rispondere  o No, è la procedura".

"Beh, allora..."

"E deve dire la verità".



"...sono io, sono Abrami Davide".

"Molto bene. L'avvisiamo che dopo un attento esame del suo curriculum..."

"Io non ho mandato nessun curriculum".

"Li scarichiamo direttamente dalla rete. Mi faccia eseguire la procedura. Dopo un attento esame del suo curriculum, lei è stato indicato dai partiti della maggioranza parlamentare come Presidente del Consiglio in pectore. Congratulazioni!"

"Mi posso ritirare?"

"Ovviamente no. Ha visto quel che è successo a Nizzoli Gianfrancesco?"

"Che figura, poveraccio".

"Si era inventato una laurea in medicina, adesso secondo lei quando l'hanno indicato non avrebbe preferito ritirarsi? Ma non si può più".

"Non si può più".

"No".

"Ma perché?"

"Secondo lei?"

"Senta, io non scrivo un curriculum da quindici anni, non ho la minima idea di cosa posso..."

"Il suo curriculum è divertente, ci ha messo anche l'erasmus e l'interrail, piuttosto mi preoccuperei del suo conto, di alcuni bonifici verso il 2005".

"Il 2005? Mi stavo sposando, può darsi che... i miei genitori".

"Molto generosi. Suo padre aveva una piccola attività, mi pare?"

"Sì ecco, faceva l'idraulico"

"Come dice? Non sento".

"L'idraulico".

"BenissiMAHAHAHAHA AHAHAHAHAHAH AHAHAHAHAHAH AHAHAHAHAHAH".

"Mi scusi..."

"No, scusi leiAHA AHAHAHAHAHAHAHAH L'IDRAULICOAHA AHAHAHAHAHAH".

"Questo non è previsto dalla procedura, immagino".

"No, no, la procedura prevede che già in questo momento tutti i suoi dati sensibili siano inviati a tutti gli organi di stampa. Lei è un personaggio pubblico, adesso".

"Ma mio padre..."

"Di solito cominciano a metterla sulla graticola verso le sei del mattino, deve pensare che anche durante la notte ci sono redazioni al lavoro, anche negli USA, sa col fuso orario..."

"Ma che gli frega agli americani di mio padre..."

"Si stanno appassionando, è un format di successo, prima o poi lo esporteremo. Passeranno ai raggi X tutta la sua mediocre carriera, e ovviamente i bonifici non resteranno inosservati. Lei naturalmente può dimostrare che suo padre non stesse adoperando il suo conto corrente per nascondere fondi in nAHAHAHAHAHAHAH AHAHAHAHAH".

"È cardiopatico, perché volete fare questo? Avrà fatto i suoi errori, ma alla sua età... un po' di pietà..."

"Con Renzi l'hanno avuta? Domani verso quest'ora l'avviserò che, per cause di forza maggiore, i partiti della maggioranza hanno deciso di ritirare la sua candidatura e di infierire su un altro poveretto scelto a caso".

"Tutto questo è assurdo".

"Non più di tanto. No. I partiti della maggioranza non vedono l'ora di installare in Italia un governo di Rettitudine e Onestà, e lo faranno, non appena avranno trovato in tutta la nostra penisola un uomo Veramente Onesto, almeno uno".

"Nel frattempo..."

"Nel frattempo resta Gentiloni. La saluto. La telefonata le sarà addebitata, sono cinque euro più due di IVA, totale sette euro".
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Lo sai anche tu (che non te li darò mai più)

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"Oh ciao, ti stavo giusto cercando".

"Già".

"Ti ricordi quei soldi che ti devo..."

"Già".

"Senti, io ci ho pensato molto, e secondo me è ora di uscire dall'ipocrisia".

"Già".

"Cioè lo sappiamo tutti, no? Lo sappiamo tutti che non riuscirò mai a darteli".

"Già".

"Ormai è solo un numero, capisci, un numero astratto che non ha più importanza, potrebbe essere il doppio, potrebbe essere la metà, non ha più tante importanza, no?"

"Già".

"E se dicessimo che è la metà?"

"Già".

"No dai non fare così. Veniamoci incontro. Diciamo che lo abbassiamo di un quarto. Di un quinto".

"Già".

"Duecentocinquanta miliardi. Dai. Tanto lo sai benissimo che non te li darò mai. Dove li trovo? Si tratta solo di... di... di accettare la cosa, ecco, di uscire dall'ipocrisia".

"Già".

"Quindi siamo d'accordo?"

"Già".

"Ecco, vedi? È stato facile. Siamo usciti dall'ipocrisia".

"Già".

"Adesso vado, anzi, senti, scusa, oggi pomeriggio dovrei andare a Bologna, non è che hai venti euro da anticiparmi..."

"No".

"Come no?"

"No".

"Ma certo che ce li hai venti euro, scusa, tu ce li hai sempre".

"Già".

"Ma scusa, proprio adesso che siamo usciti dall'ipocrisia, non mi fai andare a Bologna, cioè non riesci a trovarmi venti miseri euro? Forse credi che non te li restituirò?"

"Già".

"Alla Germania li avresti dati".

"Già".

"E a me no!, vedi, allora lo ammetti".

"Già".

"È tutto un complotto contro di me! I miei genitori hanno fatto tanti debiti e tu te la prendi con me!"

"Già".

"Ma non ti vergogni?"

"Già".
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Verso il governo Chiunque I

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Una settimana fa Di Maio e Salvini chiesero 24 ore per formare il governo. Forse oggi riusciranno a presentarlo a Mattarella. Una bozza di contratto fatta filtrare nelle ultime ore dà l'impressione che l'accordo resti molto fragile. Desta stupore soprattutto l'istituzione di un "Comitato di conciliazione" che dovrebbe essere istituito "per giungere a un dialogo in caso di conflitti". Certo, i vertici a porte chiuse si sono sempre fatti, ma mettere nero su bianco il regolamento su una scrittura privata lascia perplessi. In attesa di scoprire se è costituzionale o no, limitiamoci a trovarlo poco elegante, come certe clausole negli accordi prematrimoniali che ti fanno intravedere il disastro. In questo Comitato, oltre ai due leader, sarebbe prevista la presenza di non meglio precisati "soggetti individuati dal Comitato": e il pensiero corre subito a Davide Casaleggio, che sarebbe così ammesso nelle stanze del potere senza bisogno di passare dalle elezioni. L'idea tradisce la tipica diffidenza Cinque Stelle per gli eletti. Anche per i propri, ai quali il M5S impone un contratto capestro con multe altissime a chi osa abbandonare il gruppo parlamentare o tradire il mandato.

Questa diffidenza non è un incidente di percorso: è uno dei caratteri fondamentali del Movimento. E rischia di essere la sua fondamentale debolezza, ora che prova a cimentarsi con un governo. Il partito che non crede nel principio di delega non ha mai voluto creare una vera classe dirigente. A cinque anni dalla prima clamorosa vittoria elettorale, il M5S è rimasto una truppa di soldati semplici. Anche i volti più riconoscibili alla fine non esprimono che una straordinaria medietà; tutto in loro lascia intendere che chiunque potrebbe essere al loro posto, e in effetti loro sono chiunque; nessuno si stupirebbe se scoprissimo che l'algoritmo di Rousseau li sceglie a caso. Persino i più pittoreschi non tradiscono nessuna particolare personalità: urlano e strepitano perché rappresentano quel tipo di cittadino che urla e strepita. Forse Di Battista era un caso a parte, e per il momento si è dileguato. Roberto Fico sembrava un po' più a sinistra di altri, ma ora ha un incarico istituzionale: promoveatur ut amoveatur.


Quanto a Di Maio, c'è chi gli ha imputato una cattiva gestione della trattativa: ma a mio parere non si sarebbe impuntato per un mese su Palazzo Chigi se non gli fosse stato chiesto di impuntarsi. Di Maio non ha fatto che mettere diligentemente in pratica le direttive che gli erano state impartite. Criticare Di Maio significa riconoscergli una volontà propria, un'individualità che non ha mai dimostrato, anzi: in un partito di uomini qualunque, il segreto del suo successo è proprio il suo essere più qualunque di tutti, persino da un punto di vista somatico. Nessun segno particolare, nessun tic linguistico a parte una nota ritrosia nell'uso del congiuntivo che lo accomuna al 90% della popolazione; Di Maio è talmente standard che non si riesce nemmeno a parodiare. Chiunque ci prova finisce per sembrare uno snob: come fai a prendertela con un segnaposto? Di cosa dovresti ridere, della sua maturità, dei lavoretti estivi, dei congiuntivi? È come ridere di un popolo intero. Si sa che le caricature si realizzano esagerando i tratti più riconoscibili, e Di Maio non ne ha. Se assomiglia a qualcuno, è a George Abnego, il personaggio del racconto Null-P di William Tenn, l'uomo super-medio che diventa presidente degli USA proprio per la sua eccezionale medietà (continua su TheVision)

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Popcorn, vaccini e ghigliottine (100 anni di orgogliose sconfitte)

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Sono abbastanza convinto che Renzi non abbia mai detto "Ora tocco a loro e pop-corn per tutti", come pure ha virgolettato ieri la Stampa. Se poi davvero la frase gli è scappata, sarà successo in una conversazione privata che sarebbe scorretto strumentalizzare, come hanno fatto immediatamente i suoi avversari interni. D'altro canto è per vero che Maria Antonietta non ha mai detto "Che mangino brioches" alla folla che chiedeva il pane (ma l'aneddoto è geniale, una volta sentito non si riesce a dimenticarlo); San Lorenzo non ha mai detto "Voltami, son cotto" ai pagani che lo arrostivano; e Voltaire non avrebbe mai dato la vita per difendere le opinioni dei suoi avversari, poco ma sicuro. Sono tutte storie messe in giro, fake news, e se hanno resistito così tanto è per un motivo che dovrebbe preoccupare anche Renzi. Non sono vere, ma sono efficaci. I popcorn di Renzi  in un qualche modo somigliano a quello che per Berlusconi fu "la culona inchiavabile": una frase mai detta ma che sintetizzava così felicemente il personaggio a cui era attribuita che a un certo punto alcuni berlusconiani la rivendicavano con orgoglio.


C'è che qualsiasi accostamento tra Renzi e il cibo
in qualche modo funziona.
Io non credo che Renzi abbia parlato di popcorn: neanche in privato. Sarebbe stato come ammettere che il suo rifiuto a ogni trattativa, orgogliosamente rivendicato dal quattro marzo in poi, più che una strategia assomiglia alla reazione puerile di un ragazzo escluso dai giochi, che si siede sugli spalti e spera che i contendenti rimasti si picchino a sangue. "Popcorn per tutti" contiene in sé tutto un mondo di sbruffoneria, introducendo anche l'idea di una piccola corte di amici che i popcorn dovrebbero prepararli e gustarli col capo. È a ben vedere una parodia dell'hashtag #ToccaALoro, e Renzi francamente non sembra così autoironico. Certo, se nei prossimi mesi succederà qualche disastro, è probabile che l'espressione gli sarà ritorta contro: hai voluto i popcorn? In realtà no, Renzi non li ha voluti: ma ha pur sempre lasciato intendere che i disastri erano inevitabili o che il suo Pd almeno non avrebbe mosso un dito per evitarli. Una nuova crisi dello spread, una catastrofe umanitaria nel mediterraneo, sono tutte eventualità non così implausibili con Salvini e Di Maio al governo, ma Renzi non sta dando l'impressione di preoccuparsene più di tanto. Nei piani, questo atteggiamento dovrebbe riconciliarlo con gli elettori, una volta che si stancheranno delle promesse non mantenute da M5S e Lega. Si fa un torto a definire questo scenario "strategia del popcorn"? Magari sì, però funzionerebbe: facile da ricordare, scoppiettante, un po' irresponsabile e non troppo sano.

Nei prossimi mesi, se il governo Di Maio-Salvini va in porto, due partiti populisti che si presentavano alle elezioni come diretti concorrenti troveranno un terreno comune e occuperanno i palazzi del potere. Gestiranno le forze dell’ordine. Avranno la possibilità di influenzare l’opinione pubblica attraverso la Rai, che tende sempre a riposizionarsi secondo la maggioranza, mentre difficilmente il conflitto di interessi della Mediaset sarà ritoccato. Con o senza il “benevolo” Berlusconi, Lega e M5S avranno tempo e agio per modificare la legge elettorale a loro piacimento: in fondo lo fanno tutti i partiti che vincono le elezioni in Italia. Tutti questi rischi, una buona parte del Pd ha deciso di correrli; ha pensato che ne valesse la pena. Questa idea che l'avversario politico si combatta non ostacolando la sua ascesa al potere, da dove viene? Purtroppo non è un'innovazione dei renziani, anzi: è uno dei tratti che più li accosta alla tradizione della sinistra italiana.

La strategia del popcorn ha nobili precedenti. Il più immediato è il vaccino di Montanelli... (continua sul Post).
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Players win and Renzi plays

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Matteo.

Un attimo.

Matteo dovresti andare via.

Ho detto un attimo.

È già da molto tempo che sei qui.

Sto per andarmene.

E hai già perso molto.

Sì ma all'inizio avevo vinto molto.

Hai perso più di quello che hai vinto.

È così...

È così.

...se me ne vado adesso.

No, Matteo, no.

Perché se invece adesso vinco...

Ma non vinci più Matteo.

E perché non dovrei vincere, sentiamo.

Non funziona così.

Hai visto come ho ridotto Di Maio? Il M5S? Hai visto come li ho mandati a sbattere?

Non li hai mandati a sbattere.

Si sono rimessi a chiedere il referendum sull'Euro, capisci? Li ho fregati.

Hai chiuso al M5S e loro a questo punto si preparano a un'altra campagna elettorale. Slegano il Beppe, è normale.

è orgoglioso
Grazie a me.

Cos'hai ottenuto, Matteo?

Stavano mettendosi a ragionare, e io...

Stavano calando nei sondaggi.

Li ho mandati a sbattere!

Gli hai fatto slegare il Beppe. Così risaliranno nei sondaggi. E se si va a votare?

E se si va a votare magari vinco io.

Non vinci tu, Matteo.

Ho dimostrato di essere più affidabile.

Non è una gara che vince il più affidabile.

E chi lo sa. Magari al prossimo giro...

È patologica questa cosa, Matteo.

Ma ti ricordi che all'inizio vincevo?

È un po' questo il problema. Quella voce nella testa che ti dice...

Se all'inizio vincevo, perché non posso vincere di nuovo?



C'è gente che si è rovinata ascoltando quella voce, Matteo.

Stai insinuando che mi lasciassero vincere per illudermi? Perché sapevano che comunque alla fine avrei lasciato alla cassa anche la camicia? Stai dicendo che sono stato un pollo tutto il tempo?

Sto solo dicendo che dovresti andartene.

Se ora me ne vado sarebbe come ammettere che sono stato un pollo tutto il tempo.

Mentre se resti...

Mentre se resto e faccio un ragionamento serio sulle forze in campo, io...

Quali forze in campo, Matteo? Hai tagliato i finanziamenti ai partiti e stai giocando contro il primo gruppo editoriale italiano e una startup che per prendere un voto spende un decimo di quel che spendi tu

Ma che ragionamenti sono.

Sei tu che volevi fare un ragionamento serio sulle forze in campo. Alle ultime elezioni non avevi i soldi per i manifesti.

Le elezioni non si vincono più coi manifesti. C'è internet.

Tu non stai usando internet benissimo, Matteo.

Forse c'è qualcosa da rimettere a posto, ma...

Va bene, allora esci un attimo a rimettere a posto le cose. 

Se esco un attimo non mi fanno rientrare più. Ci avrò fatto la figura del pollo.

Mentre se giochi un altro gettone...

Magari è quello buono.

Neanche se fosse una slot, Matteo. Neanche se ti stessi giocando i tuoi soldi, e non l'immediato futuro di un Paese popoloso. Neanche se fossi da solo in un bar alle cinque del mattino con quel che resta dello stipendio che hai tirato la settimana scorsa, Matteo. Neanche in quel caso...

Io ci provo.

...Sarebbe una buona idea

Cosa ho da perdere?

Now I'm down a little, in fact, I'm down a lot
I'm on a roller coaster ride that I can't stop
Yeah, my luck has changed, but she'll come back
That's the beauty of a game of chance
I can't lose forever, but I'm doomed to try
Because I keep on hearing a voice inside

Players win and winners play
Have a lucky day
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Democratico, troppo democratico

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Piccolo esperimento mentale. Supponiamo che da un momento all'altro un economista italiano di un certo rilievo dichiari il suo appoggio per il Movimento Cinque Stelle. Riuscite a immaginare lo stesso economista, dopo pochi giorni, tentare di dettare la linea al Movimento, magari minacciando di stracciare una tessera appena presa? Nel M5S sarebbe impossibile.


Infatti è appena successo nel Pd, onorato all'indomani della sconfitta elettorale dall'adesione via twitter del ministro Calenda. Dopo poche ore Calenda già spiegava al Pd cosa doveva fare e non fare per non perdere la sua preziosa adesione. Provate a immaginare la stessa situazione nella Lega, o in Forza Italia – non ha senso. Nel Pd non è nemmeno la prima volta. Ogni tanto arriva qualcuno, prende la tessera e spiega agli altri cosa deve fare il partito.


La stessa avventura renziana, in fondo, è cominciata così: appena otto anni fa anche l'allora sindaco di Firenze era sostanzialmente un outsider. Quel che è successo dopo, a ben vedere, non ha molti precedenti nella storia dei partiti italiani: in una manciata di anni, grazie a un paio di consultazioni di base (le Primarie!), l'outsider si è preso il partito di cui è tuttora, malgrado le dimissioni ufficiali, il leader più rappresentativo. È una traiettoria impensabile in partiti-azienda come Forza Italia o M5S; molto improbabile nella Lega, che ormai è a tutti gli effetti il partito italiano più vecchio in parlamento, l'unico che mostri ancora vagamente una struttura tradizionale novecentesca. Forse è la prova che il Partito Democratico è davvero democratico; di certo è la dimostrazione che è un partito straordinariamente scalabile: che chiunque abbia una visione e un po' di sostenitori – e di finanziatori – può davvero entrare e cominciare a dettare la linea. Gli altri partiti non sono così e gli altri partiti, bisogna ammetterlo, non perdono così tanti voti (più di sei milioni in dieci anni). A questo punto si tratta di capire se quello che doveva essere il punto di forza del Partito Democratico non si sia rivelato la sua principale debolezza: se i segni di vitalità che ci sta mostrando in questi giorni (incontri, dibattiti, correnti che nascono) siano un segno promettente o gli ultimi rantoli di un'entità che non si rassegna al declino. Il Pd non è certo l'unico partito a strutturarsi in correnti, ma è l'unico in cui le correnti diano la sensazione di poter nascere, agglutinarsi, defluire, nel giro di pochi anni o mesi. Matteo Richetti ne ha appena tenuta a battesimo una, "Harambee", affrettandosi a spiegare che si tratta di una parola swahili che non ha un vero e proprio senso: una generica affermazione di volontà e unione, una specie di "daje", "oh issa": non che l'"I care" di Veltroni e il "Big Bang" di Renzi alludessero a significati molto più complessi, ma insomma la sensazione è che siano finiti non soltanto i contenuti, ma ormai anche i nomi per chiamarli.


Il fatto è che in questi dieci anni di vita ormai il Pd le ha provate tutte... (continua su TheVision).
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Di Maio e Salvini: due populisti inconciliabili?

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In seguito magari avremo il tempo per domandarci se un governo M5S-Lega sarebbe stato evitabile: se l’asse tra le due forze populiste non si sarebbe potuto in qualche modo scongiurare. Fin qui però l’impressione è quella opposta. Anche perché chi avrebbe ancora qualche carta in mano per evitare un accordo tra Salvini e Di Maio sembra deciso a non volerla giocare. Berlusconi e il Pd, in particolare, sembrano ormai rassegnati, se non sollevati, all’idea che i populisti e i sovranisti assumano il controllo delle operazioni. Il Pd li guarderà dalla sponda del fiume, mentre Berlusconi addirittura potrebbe appoggiarli.



Berlusconi, lo si è visto nei giorni delle elezioni dei presidenti di Camera e Senato, è un po’ troppo sfibrato per mettersi contro un’ondata che avanza. E poi lo conosciamo: a lui le ondate piace cavalcarle, e proverà a montare anche su questa. Finirà probabilmente disarcionato, ma è la sua natura. Per ora i tg Mediaset hanno smesso di soffiare sull’emergenza criminalità e l’emergenza invasione, un segno abbastanza eloquente. Quanto al Pd, non è proprio sull’Aventino, ma poco ci manca. La linea è ancora quella del segretario dimissionario, ovviamente riassunta in un hashtag: #ToccaALoro. Lasciamoli governare. Vediamo quello che combinano. Sottinteso: non riusciranno a combinare niente, e molto presto ci ricondurranno alle urne. Questo per ora sembra essere l’unico schema del Pd – è anche l’unico schema che preveda una sopravvivenza politica di Matteo Renzi. Ma sembra più il frutto di un’infantile fantasia di rivalsa che di una serena valutazione delle forze in campo. L’idea è che la miscela di Lega e M5S sia talmente instabile da deflagrare prima di trovare un suo equilibrio, come successe per esempio al primissimo Polo delle Libertà del 1994, quello che si spezzò nel giro di sei mesi, portando alla vittoria elettorale dell’Ulivo di Prodi, due anni dopo. Al Pd sembrano pensare che stavolta tutto esploderà anche prima. Eugenio Scalfari su l’Espresso ha aperto i dialoghi di Platone e ne ha tratto auspici favorevoli: facciamogli scrivere una legge elettorale (un’altra!), e poi via che si torna alle urne, anche a ottobre. C’è da dire che lo Scalfari divinatore non va sottovalutato, predisse anche la rielezione di Napolitano al Quirinale. Anche lui sembra convinto che il populismo sia un fenomeno passeggero, intrinsecamente instabile, che appena gli dai un po’ di corda si impicca. Ma alla prova dei fatti non è mai andata così... (continua su TheVision)

I leghisti sopravvivono ad alterne fortune da quasi trent’anni ormai, e il M5S è decisamente più solido di quel che sembrava a prima vista. I suoi avversari hanno sempre amato pensare che si sarebbe contentato di restare all’opposizione, e che non avrebbe retto alla prima prova dei fatti. Ma ci sono sindaci M5S che ormai stanno serenamente terminando il loro primo mandato, e che probabilmente saranno confermati. Anche quando entrano in rotta col Movimento (come Pizzarotti a Parma, o Marco Fabbri a Comacchio), gli elettori continuano a preferirli alle alternative di centrosinistra e centrodestra. A Livorno c’è ancora Filippo Nogarin, a Torino Chiara Appendino e a Roma è ormai chiaro che la giunta Raggi durerà più di quanto è durata la giunta Marino. Insomma malgrado incidenti di percorso anche gravi, il M5S non perde il sostegno dei suoi elettori nei municipi. Perché dovrebbe perderlo quando comincerà a occupare qualche ministero? Non è poi così difficile trovare ministri più simpatici di Pier Carlo Padoan o di Valeria Fedeli, e non devono essere per forza più capaci. Se saranno giovani e abbastanza telegenici gli elettori perdoneranno volentieri l’inesperienza.

C’è anche chi, pur riconoscendo la stabilità degli ingredienti Lega e M5S, ritiene che la miscela si riveli esplosiva. Benché condividano qualche battaglia e qualche parola d’ordine, Lega e Movimento hanno proposte inconciliabili (flat tax e reddito di cittadinanza), espressioni di classi in conflitto (il nord industriale umiliato dalla crisi, il centro-sud piagato dalla disoccupazione). Insomma non funzionerà, non durerà. Come si diceva una volta: le contraddizioni scoppieranno.

Da parte mia non dico che non sia prevedibile e persino auspicabile; e capisco anche chi, giocando al tavolo di Salvini e Di Maio, a questo punto ha una gran voglia di scoprire il bluff. Ma questo non è un normale giro di poker, è la politica italiana: un gioco alquanto più subdolo in cui le contraddizioni tendono a non scoppiare mai, anzi. Il Pd era liberista e socialdemocratico, Berlusconi era miliardario e populista, la Balena Bianca di Moro e Andreotti era conservatrice e (moderatamente) progressista, Mussolini era nazionalista e socialista, e così via. Potremmo risalire fino a Cavour, fino ai Gracchi forse, dappertutto contraddizioni che invece di scoppiare si ingrossano fino a schiacciare gli avversari. Lega e M5S sono le due facce, solo in apparenza inconciliabili, di un unico movimento, che assume diverse incarnazioni in tutta Europa e in Nord America, e che per comodità chiamiamo populismo – la parola più giusta potrebbe essere “sovranismo”. Da Trump a Orban lo schema è simile e prevede l’arroccamento nei propri confini geografici e psicologici, insieme con l’individuazione di un nemico che minaccia la nostra integrità e ci impedisce di essere grandi come nei bei tempi andati. Make America Great Again, grida Trump; l’Italia torni a essere la prima potenza europea, echeggia Salvini senza preoccuparsi troppo del senso del ridicolo. Di solito, però, il nemico individuato è sia esterno che interno: i nemici della grande America di Trump non sono soltanto la Cina e l’Iran ma anche i democratici che hanno stretto con Cina e Iran patti vergognosi.

Anche in Italia i populisti hanno proceduto da tempo all’individuazione del nemico: ma il nostro caso è particolare perché invece di coagularsi intorno a un solo polo, come negli Usa e altrove, c’è stato un curioso sdoppiamento. Da una parte un populismo endogeno, che si è raccolto intorno al M5S e cerca i nemici del popolo esclusivamente al suo interno, identificandoli nella Ca$ta dei politici corrotti e collusi. Dall’altra un populismo esogeno che ha occhi solo per le minacce esterne, vere o presunte (l’Euro, la tecnocrazia di Bruxelles, Soros, Bilderberg); i suoi ispiratori per un po’ hanno pascolato anche nei territori grillini, ma ormai sono stati quasi del tutto reclamati dalla Lega di Salvini. Così succede che nei momenti più propizi per dare addosso agli immigrati, gli uomini di Grillo si sottraggono mostrando spesso il lato più umano (votarono per depenalizzare la clandestinità); viceversa ogni volta che si scoperchia qualche scandalo romano, i leghisti si dimostrano molto meno arrabbiati, molto più garantisti dei grillini – in fondo in trent’anni almeno una tangente l’hanno presa anche loro.

Messi insieme, Grillo e Salvini produrrebbero il populista perfetto: sarebbe davvero una gran fortuna se si rivelassero inconciliabili. Ma è più facile immaginare che siano complementari, e che lo sdoppiamento tra populisti endogeni ed esogeni sia stato causato, piuttosto, dall’altra grande anomalia italiana, Berlusconi. Quel che ha allontanato fin qui leghisti e grillini, infatti, non è un destino ineluttabile, ma la figura dell’ex capo supremo del centrodestra italiano: sostenuta dai primi, invisa ai secondi. E ora che Berlusconi tramonta, c’è il grosso rischio che i populismi apparentemente inconciliabili di Salvini e Di Maio si svelino complementari. Un pericolo che gli avversari dovrebbero sventare a ogni costo. Ammesso che ci siano avversari, ormai.
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Beppe Grillo, obsoleto e felice

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Il M5s, quelli del “Grillo fondi un partito e vediamo quanti voti prende”, sono diventati a tutti gli effetti una forza di governo – o almeno potenzialmente. Chi pensava che si sarebbero accontentati del ruolo tutto sommato confortevole di oppositori duri e puri al sistema ha avuto il tempo di ricredersi: i grillini ci vogliono provare davvero. Ci stanno già provando, a livello locale: non si sono tirati indietro nemmeno in municipi importanti (Torino, Roma), per nulla scoraggiati dagli inevitabili errori di percorso. Se non sarà Di Maio stavolta, sarà qualcun altro la prossima, ma prima o poi avremo ministri a Cinque stelle. Conviene rassegnarsi, come si è già rassegnato, per esempio, Beppe Grillo. Già, a proposito: quando andranno al governo, cosa succederà a Beppe Grillo?

Qualcosa, a dire il vero, è già successo, anche se forse non abbiamo ancora capito cosa. A un certo punto sembrava addirittura che Grillo avesse lasciato il movimento da lui fondato e lanciato dieci anni fa. Non è esattamente così, o meglio, una scissione c’è stata, ma non nel senso politico del termine. A scindersi sono stati due siti web, lo storico beppegrillo.it e il Blog delle Stelle, che ormai ha tutta l’aria di essere il blog ufficiale del Movimento. Si tratta di una partenogenesi difficile da documentare: Grillo e i suoi redattori hanno infatti sempre approfittato della possibilità di intervenire sugli archivi del blog riscrivendo il passato. Fino a qualche mese fa, la testata “Il Blog delle Stelle” compariva ancora in cima a beppegrillo.it, sopra lo storico sottotitolo, “il primo magazine solo on line”. Dopo le parlamentarie, il 23 gennaio, è avvenuta la famigerata scissione e il Blog delle Stelle è diventato un sito a parte che ha mantenuto la denominazione di “primo magazine solo on line”, mentre all’indirizzo beppegrillo.it è comparso un nuovo blog – è lo stesso Grillo ad ammettere che si tratti di una novità. Più leggero, più rilassato. Senz’altro meno politico.

La prima cosa di cui ci siamo accorti tutti è l’assenza, sul nuovo beppegrillo.it, di qualsiasi riferimento al Movimento 5 Stelle, il che ci ha fatto immaginare chissà quale scontro col vertice e con Roberto Casaleggio; uno scontro completamente smentito dalla partecipazione di Grillo agli ultimissimi eventi della campagna elettorale, e da almeno un’intervista rilasciata dopo le elezioni. Grillo non è più il “capo politico” del M5s, ma non ha ancora tradito un solo accenno polemico nei confronti della nuova dirigenza e del nuovo corso. Quel che è evidente è che nel nuovo sito non ha nessuna intenzione di parlare di politica: persino quando pubblica quel che può sembrare un doveroso ringraziamento agli elettori, evita con attenzione di parlare di voto e anche solo di nominare il Movimento. Beppegrillo.it è diventato uno di quei salotti tranquilli in cui può discutere amabilmente (per modo di dire, visto che i commenti sono stati chiusi), con un’olimpica serenità che davvero non ci si aspetterebbe dal bizzoso fondatore di un movimento che ha appena vinto le elezioni, ma che per ora non ha i numeri per formare un governo. Si ha quasi l’impressione si sia trattata di una svolta dovuta a motivi più “clinici”: Grillo più volte aveva lamentato la stanchezza, lo stress di dover rivestire un ruolo politico per il quale non si sentiva tagliato.

Ora che non deve più dibattersi nelle schermaglie quotidiane tra sostenitori di Salvini, Berlusconi e Renzi, il comico genovese ha più spazio per occuparsi di tante cose, come in fondo ha sempre fatto. Si guardi anche solo al sommario dell’ultima settimana, “una delle più interessanti da quando siamo partiti con il nuovo blog”: c’è di tutto. Accanto a riflessioni sconclusionate, che per ammissione dello stesso Grillo sono il parto di una notte insonne (“Abbiamo il polo nord, il polo sud… Ma il polo est e il polo ovest dove sono?”) ci sono le solite mirabolanti notizie dal mondo dell’hi-tech, tipo che in Arizona stanno per arrivare i taxi che si guidano da soli; due ricercatori del Mit hanno fondato una start-up che vuole fare “il back-up della tua mente”, il primo passo verso l’“immortalità cerebrale”?

Anche il vecchio blog dava molto spazio all’innovazione tecnologica, ma a essere cambiato è l’approccio, oggi più sereno, fiducioso. Da quando calca le scene, Grillo ha sempre usato due maschere: quella tragica e apocalittica in cui gridava “ma siamo impazziti?”, e quella dai tratti più concilianti del guru futurologo che annuncia le grandi promesse del domani, che ok, il mondo presente è un disastro, ma le cose stanno per cambiare. Stampanti 3D, veicoli che si guidano da soli, bio-washball e così via. Grillo ha sempre promesso ai suoi seguaci un paradiso tecnologico oltre il disastro imminente; ora che il Movimento si avvicina alla prova dei fatti, quell’orizzonte per Grillo è sempre più vicino. È anche un modo di dare un senso al suo ruolo di guida della rivoluzione: se non può e non vuole fare il leader politico, può sempre dare un contributo additando la direzione dal balcone virtuale del suo blog – oggi ai militanti M5s, domani ai ministri. Qualcosa di simile al ruolo di Mao negli anni precedenti alla rivoluzione culturale cinese. Non sono certo il primo ad accostare grillismo e maoismo; è un paragone irresistibile anche perché Grillo sul suo blog scrive pensieri sempre più semplici e lineari, leggibilissimi, ormai molto vicini allo stile elementare del Libretto Rosso (L'obsolescenza felice di Beppe Grillo continua su TheVision).





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Muoia Sansone e... chi sono i Filistei?

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Sansone, martire di Israele


Contro Sansone, eroe biblico dalla forza erculea, i Filistei nemici di Israele non avrebbero avuto nessuna possibilità: finché Dalila non glielo fece trovare addormentato sulle sue ginocchia, e non ne rivelò il segreto: la forza di Sansone era tutta nei capelli. I Filistei lo rasarono, lo incatenarono, lo accecarono e lo portarono nel loro tempio per bullarsi. Poi siccome erano i cattivi di un libro della Bibbia – e quindi sostanzialmente stupidi – si dimenticarono di rasarlo con regolarità e ovviamente il risultato fu che Sansone riacquistò le sue forze e durante una festa, sollevando l’architrave del tempio, ne schiacciò più di quella volta che ne aveva fatti fuori un migliaio a mascellate d’asino. Ma soprattutto in quell’occasione ebbe modo di dire: Muoia Sansone con tutti i Filistei.

Sansone è l’esempio biblico dell’eroe che si auto-immola per creare più danni possibili al nemico. Qualcosa di più violento e radicale del paolino Cupio dissolvi: desidero essere annullato, sì, ma solo per annullare insieme a me un più grande male che mi circonda. Mi è impossibile non pensare a Sansone in questi giorni, quando leggo affermazioni di dirigenti e militanti Pd, tutti comprensibilmente un po’ accecati dallo choc di una sconfitta (che in realtà non era così imprevedibile: però fa male lo stesso). Gli elettori ci vogliono all’opposizione, sento dire. Ancora una volta mi sembra che venga frainteso il senso di un’elezione parlamentare: non è un referendum sul governo. I cittadini eleggono dei rappresentanti alla Camera e al Senato: a questi rappresentanti spetta la decisione di sostenere o no un governo. Esistono coalizioni di governo in tutto il mondo, in particolare in gran parte delle democrazie parlamentari europee, composte anche da partiti che hanno preso percentuali inferiori al 19% del Pd (gli alleati della Dc nel Pentapartito prendevano molto meno e governavano senza che nessuno trovasse la cosa anticostituzionale).


Se cerchi “Sansone” nell’archivio del Post trovi Hedy Lamarr,
ok, non ho obiezioni.
È pur vero che gli elettori non hanno espresso una maggioranza assoluta per il Pd, ma era anche inverosimile che succedesse; tanto che già prima delle elezioni molti si aspettavano una possibile convergenza post-elettorale tra Pd e Forza Italia: una cosa che avrebbe ripugnato molti elettori di entrambi i partiti, ma che si sarebbe comunque fatta senza troppi piagnistei. Gli elettori non l’hanno voluta, ma se è per questo non hanno scelto nemmeno quel governo M5S+Lega che molti rappresentanti del Pd ora sembrano invocare così come Sansone invoca la fine per sé e per i Filistei. Gli elettori di sicuro quando hanno votato a fine inverno non hanno espresso nessun desiderio di tornare a votare a fine primavera: ma se Salvini non vuole governare né col M5S né col Pd, e il Pd non vuole governare né con Salvini né col M5S, che altro possiamo fare?

Possiamo restare calmi. A dispetto di tutti i commenti urlati di questi giorni, uno stallo di questo tipo non ha nulla di eccezionale: è abbastanza normale ogni volta che il voto popolare si coagula intorno a tre o più poli di attrazione invece che due (e no, la soluzione più sensata e democratica non è regalare un premio a chi arriva primo anche per uno scarto minimo: non è Formula 1, è democrazia). In Germania, dopo un risultato elettorale un po’ meno complicato del nostro, ci sono voluti sei mesi per trovare un accordo di governo tra i Cristiano-democratici della Merkel e i socialdemocratici che, almeno all’inizio, sembravano non aver lasciato nessuno spiraglio. In Italia una crisi al buio di sei mesi non si è mai vista: persino nei momenti più spensierati della prima repubblica, quando l’Europa non ci stava addosso e il debito pubblico cominciava a essere abbastanza grande da badare a sé stesso, non è mai capitato di tornare alle urne senza aver tentato nemmeno un governicchio di un anno o due. Questo magari non significa niente. Però i precedenti ci lasciano pensare che nelle prossime settimane molte porte che sono state sbattute in modo teatrale si riapriranno, in modo discreto, anche se il cigolio potrà urtare chi dai politici si aspetta prima di tutto coerenza. Molto dipende anche da come andranno i mercati: il famoso spread potrebbe tornare a farsi sentire e a innervosire elettori ed eletti (forse più dell’instabilità politica italiana dovrebbero preoccuparci le bizze protezioniste del presidente USA: qualsiasi governo avremo tra tre mesi, se scoppia una guerra commerciale saremo comunque nei guai).



Se è veramente troppo presto per capire come andrà a finire, possiamo nel frattempo registrare una notevole mutazione in atto: il PD, il partito che fino a qualche giorno fa era considerato il partito della responsabilità, del Principio di Realtà, dopo il pessimo risultato sta cambiando completamente pelle – sembra aver indossato la pelliccia leonesca di Sansone. Non perché Renzi si sia dimesso (peraltro, anche dimesso, continua a dettare la linea), ma perché nel giro di poche ore si è trasformato nel partito della ripicca, della recriminazione, della fantasia di rivalsa. Gli stessi dirigenti che per mesi ci hanno preparato emotivamente a una scelta dolorosa ma responsabile (pensavano che avrebbe vinto Berlusconi, e che si sarebbero messi d’accordo con lui), quando hanno vinto Salvini e Di Maio hanno improvvisamente mandato all’aria la responsabilità, il bene del Paese e tutto quanto. Governino gli altri, e vediamo di cosa saranno capaci. “Aspetto con ansia ius soli, stepchild adoption per le coppie gay e lesbiche e legge contro l’omotransfobia”, annuncia Ivan Scalfarotto, e il suo sarcasmo lascia un po’ perplessi: non solo immigrati e gay non avranno nulla di ciò (è colpa loro se il Pd ha perso?), ma è abbastanza facile immaginare che un governo Salvini revochi quei pochi, soffertissimi passi avanti che erano stati fatti fin qui: quante speranze ha di resistere il Ddl Cirinnà?

Ogni richiamo alla responsabilità – e capisco che possano suonare stucchevoli, spesso da personaggi che nemmeno hanno votato il Pd – viene respinto al mittente con un tono esasperato che imbarazza lo spettatore: sembra di avere davanti un quarantenne in crisi di mezza età che dopo una delusione professionale o sentimentale si tappa in casa dei suoi: vediamo cosa fa il mondo senza di me. Chi si comporta in questo modo di solito è realmente convinto che il mondo non possa fare senza di lui: uno psicanalista prestato alla cronaca politica potrebbe trovare definizioni molto drastiche (dov’è Recalcati quando serve?) Quel che da lontano può sembrare narcisismo potrebbe però rivelarsi una scelta strategica sensata: chi in questi giorni soffia sulle braci del rancore piddino, sbarrando la strada a qualsiasi possibilità di collaborazione col M5S, cosa immagina che succederà? Qual è il suo piano?

L’altro ieri c’è stata una direzione del Pd e Matteo Renzi, segretario dimissionario, non c’è andato. In compenso ha concesso a Cazzullo, sul Corriere, un’intervista che lascia perplessi, in cui conferma le sue dimissioni e… nel frattempo detta la linea, poi ribadita in direzione dal reggente Martina: no a qualsiasi alleanza, staremo all’opposizione. Ma è un altro il punto dell’intervista dove Renzi svela la sua prospettiva: non quando racconta a Cazzullo che nei prossimi anni ha intenzione di fare il senatore (“non ci crede nessuno”, reagisce Cazzullo, e noi con lui), ma quando afferma, un po’ a sorpresa, che nessuno dei due schieramenti vincitori ha intenzione di tornare subito al voto perché “prenderebbero la metà dei parlamentari che hanno adesso”.

Un’affermazione piuttosto azzardata (continua sul Post)Perché Renzi è convinto di una cosa del genere? Ha dei sondaggi? Che calcoli fa? Prendiamo il M5S: l’opinione unanime degli osservatori è che abbia vinto (al Centro e al Sud, ma non solo) perché è riuscito a individuare un tema concreto e sentito: il reddito di cittadinanza. Anche ieri, mentre Salvini e il Pd finivano sui giornali per lo più per le alleanze che rifiutavano, il blog del M5S pubblicava un intervento molto articolato, e apparentemente ragionevole, del ministro ombra grillino dell’economia. Come a dire: gli altri si preoccupano delle poltrone (anche solo per rifiutarle), noi dei veri problemi. È un messaggio che sta passando. Se tra qualche mese tornassimo alle elezioni, perché chi ha sostenuto il M5S in marzo dovrebbe bocciarlo in giugno o settembre? Il reddito di cittadinanza ormai era a portata di mano, sul Blog delle Stelle sembrava di toccarlo: non è certo colpa di Di Maio e compagnia se gli avversari politici hanno preferito tornare alle urne.


Anche gli elettori del centrodestra, perché dovrebbero improvvisamente abbandonare Salvini, prima che abbia il tempo di realizzare le sue mirabolanti riforme economiche, flat Tax e (forse) No euro? Viceversa, è più probabile che su Salvini in seconda battuta convergano anche i voti di chi l’ultima volta ha puntato su un Berlusconi ormai spompo. Eppure Renzi è candidamente persuaso che basterebbe tornare alle urne tra breve per dimezzare il consenso sia di Salvini sia del M5S. Ma se in maggio non votassero né per l’uno né per l’altro, per chi dovrebbero votare questi milioni di italiani già disillusi? Evidentemente Renzi, e molti dei suoi, pensano che tutti questi voti debbano finire al Pd.

Ma perché?

Temo che il ragionamento di Renzi sia questo: se tra un mese o due o tre non ci sarà un governo, l’Italia sarà nel caos. Quando gli italiani saranno nel caos, capiranno che errore hanno commesso a non votare sì alle mie riforme costituzionali. Finalmente riconosceranno che avevo ragione un anno fa, e verranno a cercarmi (nella mia cameretta), mi diranno: Renzi torna! E io magari all’inizio dirò no, perché non mi meritano, ma poi… Ecco. Il “tanto peggio tanto meglio” che tante volte ho riconosciuto dietro le riflessioni di chi a sinistra votava per i partiti anti-sistema da Rifondazione in poi, oggi lo ritrovo nelle parole del segretario dimissionario del Pd. Crolli pure tutto, così i Filistei imparano a incatenarci. I Filistei magari imparano, ma Sansone muore. Renzi forse non ci ha riflettuto: è comprensibile che i rovesci di fortuna degli ultimi anni lo abbiano accecato. Ma il Pd? Può davvero condividere i sogni di rivalsa di chi ancora non si dà pace per la sconfitta al referendum del 2016? Tra un po’ sarà il 2019 e non sarebbe male arrivarci con un governo stabile.

Nota bene: non c’è bisogno di cullarsi in fantasie di vendetta per rifiutare una coalizione con il M5S (o con Salvini); ci sono motivi molto più sensati che suggeriscono, per ora, di non compromettersi. La fedeltà ai propri principi, la coerenza, la stessa opportunità. Però le cose cambiano, a volte anche molto rapidamente: i mercati potrebbero innervosirsi, gli elettori potrebbero mandare dei segnali, Trump potrebbe fare davvero qualsiasi cosa, eccetera. Non sta certo a me spiegare al Pd cosa deve fare in un momento tanto difficile (tra l’altro non l’ho nemmeno votato). Il mio non è nemmeno un appello alla responsabilità, ma a quell’istinto che un partito dovrebbe condividere con associazioni e forme di vita assai più basilari: l’autoconservazione. Se il Pd pensa di poter stare per qualche mese o anno tranquillo sulla riva del fiume, mentre qualcun altro manda il Paese alla malora, forse il Pd sta sottovalutando la portata del fiume, e la situazione critica di quelle dighe, a monte, che sta ancora amministrando. Poi magari i Filistei vengono travolti, il che sarebbe fonte di gran soddisfazione per i lettori, se fossimo su una pagina della Bibbia; ma siamo nella realtà, quel libro più lungo e complesso in cui capita a tutti, prima o poi, di essere i Filistei di qualcun altro.
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Perché ci siamo stancati così presto di Matteo Renzi?

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Come ha fatto Matteo Renzi a bruciarsi così presto? Appena quattro anni fa portava trionfalmente il Pd oltre la soglia storica del 40% alle europee (con un’affluenza all’epoca del 58%, contro il 73% delle recenti politiche). Berlusconi era un relitto, la Lega stava al 6%, gli stessi Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio sembravano ormai due vecchi guru disorientati che avevano fatto il loro tempo. La vera novità era Renzi. Il Pd ormai era il suo partito, ben presto anche Palazzo Chigi sarebbe stato suo.
Qualcosa deve evidentemente essere andato storto, perché quattro anni dopo, lo stesso Pd è fermo sotto il 20%, e Renzi sembra diventato una macchietta triste, su cui i giornalisti infieriscono impietosi. La spiegazione più accreditata è che stia scontando l’esperienza di governo: il potere logora, nessun centrosinistra europeo viene confermato alle elezioni, eccetera. Questo spiegherebbe una sconfitta, ma forse non una batosta del genere.

Aggiungi che l’azione di governo di Renzi è stata tutt’altro che disastrosa, e malgrado Bruxelles gli lasciasse esigui margini di manovra, è riuscito a redistribuire qualche risorsa. Ha infilato 80 euro nelle buste paga dei dipendenti, altri 500 nel bonus cultura dei 18enni, ha tolto l’Imu sulla prima casa – misure e misurine non sempre raffinate, ma che qualche effetto sull’aumento dei consumi possono averlo avuto. Ha anche abbassato il canone Rai (aumentando il gettito, un piccolo capolavoro che agli evasori storici però non è piaciuto). Ha ottenuto risultati notevoli nella lotta all’evasione fiscale (e nel frattempo chiudeva l’odiata Equitalia); ha investito nell’edilizia scolastica e nel sostegno della natalità. Non è tutto oro quel che luccica, in particolare il Jobs Act e la Buona Scuola sono leggi molto controverse, ma un bilancio provvisorio non potrebbe essere che positivo. Il Pil è aumentato, la criminalità è diminuita.
Tutti questi risultati Renzi avrebbe dovuto difenderli in campagna elettorale, ma non ci è riuscito. La spiegazione ufficiale è la solita, c’è un problema di comunicazione. Renzi & co. fanno un sacco di cose buone, ma non riescono a spiegarle alla gente. Forse era più facile quattro anni fa, quando Renzi era ancora un rottamatore all’assalto di un partito tradizionale, mentre adesso si trattava di giocare in difesa, di rassicurare. Ma i tempi in cui Mitterand vinceva con lo slogan “La forza tranquilla” sono ormai passati, e nel grande mercato delle notizie i messaggi rassicuranti funzionano meno degli allarmi strillati in tv e sui social. Minniti può adoperarsi in tutti i modi per dimezzare gli sbarchi, ma la gente non smette di credere che dall’Africa sia in atto un’invasione, o che la disoccupazione stia aumentando vertiginosamente malgrado l’Istat registri un lieve calo. Vince chi strilla, e Renzi – pur nato strillatore – una volta al governo doveva per forza cambiare registro, ma a quel punto non ha più trovato il suo. Se è così, la sua sconfitta era inevitabile, così com’è inevitabile la sconfitta di chiunque governerà da marzo in poi, leghista o grillino o chissà. Uno può anche pensarla così.

Io la penso diversamente. Su una cosa sono d’accordo con Renzi e i suoi: è vero che c’è stato un serio problema di comunicazione. Ma non perché Renzi non sia capace di comunicare. È che secondo me stavolta non ha proprio comunicato (continua su TheVision).

Ai talk show c’è andato, l’ho visto anch’io. Ma i talk servono più che altro per predicare ai convertiti. Qualche spot elettorale in giro si è visto (e non erano nemmeno i peggiori spot della storia del Pd). Ma erano pochi, e quanti li avranno visti? Anche per quanto riguarda i manifesti, è notevole che si siano viste in giro più facce di Grasso e della Bonino che di Renzi. La sensazione complessiva è che il Pd abbia fatto tutto al risparmio. Non è stato l’unico. Il fatto è che un altro dei risultati dei governi di sinistra dell’ultima legislatura è il drastico taglio ai fondi dei partiti: se nel 2011 erano ancora complessivamente 190 milioni di euro, oggi sono appena 15. Col meccanismo del due per mille, varato dal governo Letta, quest’anno il Pd ha ricavato appena otto milioni. Non è il budget di un partito ramificato in tutto il territorio, con più di 150 dipendenti solo a Roma. Con una cifra del genere è chiaro che per i cartelloni e le inserzioni ti restano soltanto le briciole. È anche vero che cartelloni e inserzioni sono residui del passato. Guarda ad esempio il M5S, che non li usa. Usa il web. Anche Renzi ha sempre cercato di promuoversi su web e social, ma forse gli è mancata una strategia (e i soldi, anche quelli). Ha aperto diversi siti e blog, ha tentato varie strade e qualche esperimento virale è stato persino controproducente (vedi le tragicomiche avventure di Matteo Renzi News). Però anche se avesse azzeccato tutte le mosse via web, il risultato finale non sarebbe cambiato molto. L’Istat ci dice che ancora nel 2017 l’80% degli italiani forma le sue opinioni politiche davanti alla tv. Insomma anche il grosso degli elettori grillini su Rousseau non si è mai visto, è gente che riconosce Di Maio non perché ne ha letto sul Blog delle Stelle, ma perché lo ha visto in tv. Se vuoi comunicare i tuoi successi, hai bisogno della tv.

Ma la tv ha bisogno di te?

Perché l’impressione è un po’ che la tv abbia trattato bene Matteo Renzi finché era un prodotto nuovo, qualcosa che poteva tener sveglio il pubblico. Quando si è esaurita quella spinta, Renzi ha smesso di forare il video. Certo, ha continuato a essere un ospite di eccezione per i talk show, ma forse dovremmo smettere di relegare la tv ai talk show. Non è con quelli che la tv sposta i voti. I media non ti fanno vincere le elezioni perché ti intervistano e ti trovano simpatico. I media ti fanno vincere perché costruiscono intorno al tuo elettore potenziale una bolla, un mondo parallelo in cui tu sei l’unica soluzione a una serie di problemi. Salvini non vince (solo) perché dice “ruspa” alle telecamere: Salvini vince perché molto prima di avvicinarsi alle telecamere, la stessa tv ha mandato in onda a ripetizione notizie non verificate su ondate migratorie incontrollabili, su orde di profughi che rubano e stuprano, su complotti internazionali orditi da ONG al soldo di potenze straniere. Salvini in sostanza vince perché in cabina di regia c’è qualcuno che ha deciso di investire su determinati sentimenti. Invece su Renzi, a un certo punto, non ha investito più nessuno. E neanche Renzi aveva più molto da investire.

Torniamo nel 2014, al trionfo di Renzi. I suoi due principali avversari (Berlusconi e Grillo) hanno una cosa sola in comune, rappresentano due aziende di comunicazione. Da una parte il gruppo Mediaset-Mondadori, una corazzata un po’ arrugginita ma ancora importante. Dall’altra la startup imprevedibile, la Casaleggio Associati. Tv contro Web. Renzi nel ‘14 arriva di slancio, usa sia tv sia web senza spenderci troppo. È l’uomo nuovo, è naturale che lo invitino nelle trasmissioni più popolari, e che su internet il pubblico condivida i suoi contenuti senza chiedere nulla in cambio. Forse Renzi in questa fase è stato vittima di un equivoco e si è convinto che tutti fossero interessati a lui non in quanto novità, ma in quanto Matteo Renzi, e che finché sarebbe rimasto Matteo Renzi, tutti avrebbero continuato a interessarsi di lui. Ma l’attenzione del pubblico è mutevole, l’effetto novità finisce presto. I media hanno i loro tempi, e nel medio termine digeriscono tutto. Nel medio termine non c’era motivo per cui i media di Silvio Berlusconi dovessero continuare ad attirare l’attenzione sul prodotto della concorrenza, Matteo Renzi, specie dopo l’elezione di Mattarella, quando Forza Italia ritirò il sostegno alle riforme costituzionali. A quel punto Renzi si è ritrovato vaso di coccio tra i vasi di ferro. Non aveva i canali di Berlusconi e non aveva il know how internettiano di Casaleggio. Avrebbe dovuto trovare altri canali per comunicare i suoi contenuti. Non gli bastava un’ospitata in uno show serale: gli serviva un sistema mediatico che attirasse il cittadino telespettatore e gli mostrasse un’Italia renziana positiva e rassicurante. Ma per fare una cosa del genere occorrono molti soldi, e Renzi stesso si era auto-imposto di spenderne pochi. A quel punto la sconfitta era inevitabile.

Eppure qualche mossa avrebbe almeno potuto tentarla. Soprattutto all’inizio, quando aveva anche qualche risorsa da investire, imprenditori che (legittimamente) credevano nel suo progetto riformista e che erano disposti a dare una mano. A quei signori Renzi non propose di creare un magazine online che potesse contendere il bacino di utenti di beppegrillo.it, ma di sostenerlo con un progetto molto meno innovativo, un giornale cartaceo. Una di quelle cose antiquate che si stampano tutti i giorni e che ormai non legge più nessuno – però con una testata nobile, l’Unità. Non era la mossa rottamatrice che ci si aspettava da lui, ma un senso poteva averlo. Se era un espediente per riavvicinare al partito gli antichi militanti PCI, comunque non funzionò. I precedenti del resto lasciavano poco margine alla speranza: prima che la rifondasse Renzi, l’Unità era già fallita due volte in 15 anni. Renzi la rimise in piedi lo stesso, e come certi scommettitori che di fronte al baratro raddoppiano la posta, decise o lasciò decidere che la nuova Unità sarebbe andata in edicola senza i fondi per l’editoria. “Navigheremo nel mare aperto del mercato,” scrisse il nuovo direttore. Lui sarebbe durato un anno, il giornale qualche stagione in più. Gli investitori amici di Renzi sbagliarono investimento e Renzi rimase senza un organo di stampa. Nulla di irreparabile, in fondo la vera battaglia era in tv. Ma ecco, Renzi non ha neanche provato a combatterla.

E sì che è rimasto a Palazzo Chigi per due anni. Altri al suo posto avrebbero almeno tentato di plasmare la Rai a loro immagine. Lui no. Forse non si capì con Andrea Campo Dall’Orto, forse sottovalutò il problema, forse fu nell’occasione fin troppo corretto. Perché è vero, la Rai non dovrebbe diventare terreno di battaglia politica, ma se il tuo avversario possiede un terzo dell’etere in chiaro (e quando governava l’Italia si è fatto scrivere una legge su misura) il fair play non te lo puoi permettere. Matteo Renzi sicuramente è stato ingenuo, a pensare di poter gareggiare con Berlusconi senza avere né i suoi soldi né i suoi canali; a pensare di poter sembrare per sempre più giovane dei grillini anche dopo essere salito a Palazzo Chigi, dove più giovane sei più rapidamente invecchi. Matteo Renzi forse si è fatto un po’ illudere dalla sua bolla personale, e in particolare – mi costa parecchio aggiungerlo – dalla sua lunga esperienza nei boy scout, nel mondo del volontariato e dell’associazionismo cattolico. Gli scout sono abituati a fare cose straordinarie senza chiedere un soldo per sé: Renzi, senza troppo preoccuparsi delle risorse a disposizione, ha cercato (1) di rottamare la sinistra intera e (2) di cambiare verso al Paese. Non è incredibile che abbia fallito il secondo obiettivo: è già molto notevole che abbia centrato il primo.
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Tre partiti in cerca di autore

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(Ieri mattina ho trovato in homepage su TheVision un pezzo dal buffo titolo L’ODIO E L’INVIDIA VINCONO SEMPRE SULL’AMORE; ovviamente ho cliccato e ho scoperto che l'avevo mandato io, un paio d'ore prima; era già un po' vecchio e adesso lo è di più).


Com’era ampiamente prevedibile, l’unica cosa che ci è dato sapere dopo queste elezioni è che in Italia non c’è una maggioranza. Non è una novità, anzi: con questa legge elettorale era l’unico risultato possibile. Nel momento in cui scrivo le proiezioni danno il Centrodestra al 37,5% (con la Lega oltre il 17%, record assoluto, tre punti sopra Forza Italia), il M5S quasi al 32% (il che lo porta a essere il primo partito), il Centrosinistra al 23% col Pd quasi al 19%, minimo storico. Dunque malgrado la comprensibile esultanza del M5S, ha vinto il Centrodestra – e all’interno del Centrodestra, la Lega di Matteo Salvini, che in una legislatura ha quadruplicato i suoi voti. Questo è uno dei dati più importanti, forse il più cruciale: Salvini ha ottenuto un successo clamoroso e l’ha ottenuto anche cannibalizzando il suo partner più importante, Silvio Berlusconi. A questo punto, in teoria, il leader di centrodestra è il leghista (c’era un accordo esplicito, tra i partiti della coalizione: il partito più votato avrebbe espresso il candidato premier). Secondo la prassi istituzionale, il presidente Mattarella dovrebbe offrire l’incarico a lui. Ma quante possibilità ha Matteo Salvini, segretario della Lega (ex Nord), di formare un governo?

Forse adesso è più facile capire quel fuori-onda di qualche giorno fa, in cui Salvini affermava di sperare in un Pd al 22%. Salvini in questi anni ha prosperato, vendendo ai telespettatori rabbia e odio. Ha promesso di ruspare i campi rom ; di respingere i barconi; ultimamente ci ha avvertito di voler vietare l’Islam. Tutte queste cose, Salvini non può realizzarle davvero: non solo perché sono in effetti misure disumane e incostituzionali, ma soprattutto perché una volta esaudite queste promesse, Salvini non saprebbe che altro promettere. Probabilmente sperava di poter rimanere il protagonista dell’opposizione (se Berlusconi fosse riuscito ad arrivare al 20% da solo e a trovare un accordo con Renzi); oppure, se il centrodestra fosse arrivato al 50%, avrebbe potuto portare la Lega in un governo, ma in una posizione subalterna, come la Lega di Bossi che chiese per dieci anni a un governo Berlusconi il federalismo fiscale e poi si accontentò di aprire qualche ministero a Mantova. Ma se sale a palazzo Chigi, Salvini deve passare dall’arte di promettere alla scienza del mantenere. E a proposito di promesse: molti suoi elettori si aspettano che ci faccia uscire dall’Euro. L’ha promesso varie volte – sempre meno convinto, va detto – ma è quello che molti suoi sostenitori si augurano. A quel punto però si ritroverebbe in conflitto con lo stesso Berlusconi: una situazione interessante (magari improvvisamente i canali Mediaset smetterebbero di pompare l’emergenza criminalità-migranti, che alla fine ha favorito l’elemento più estremista della coalizione ai danni di chi quei canali li possiede e ci mette i soldi). Potrebbe, certo, proporre un accordo di governo al Movimento Cinque Stelle. In teoria sarebbe la maggioranza più stabile, sia alla Camera che al Senato. Ma solo in teoria.

Nella pratica, il M5S si trova nella situazione speculare a Salvini: anche loro vendono un prodotto, e non è nemmeno un prodotto così diverso; ma non sempre ha senso mettersi d’accordo con la concorrenza. Basta guardare la cartina: non era forse mai successo nella storia della Repubblica che due partiti si dividessero il territorio in modo così netto. La Lega è il partito delle fabbrichette del nord umiliate dalla globalizzazione e dall’Euro; il Movimento è il partito del meridione depresso e disoccupato. La Lega vuole la flat tax, cioè sborsare di meno; il M5S vuole il reddito di cittadinanza, ovvero intascare di più. Possono mettersi d’accordo? Fino a settembre, magari: poi c’è la finanziaria, e ciao. Entrambi vogliono uscire dall’Euro, a parole: nei fatti, l’uno può fornire una comoda scusa all’altro per non realizzare mai nemmeno questa promessa. Basta che Di Maio affermi “mai con Salvini, è un razzista!” e Salvini “mai con Di Maio, è un populista!” ed entrambi possono rimanere padroni dei rispettivi feudi elettorali, senza troppo compromettersi con la realtà. A quel punto però la realtà chi la può gestire? Una coalizione dei disperati, PD + Forza Italia + Fratelli d’Italia + chiunque ci sta? Anche questa sembra una combinazione troppo instabile.
In particolare, ci sono tre partiti che insieme potrebbero costituire una solida maggioranza, e che stanno per perdere la loro identità pre-elettorale: ormai sono anonimi contenitori di parlamentari.
Il primo è Forza Italia, ormai niente più che il marchio privato di un anziano signore che ha ancora un seguito notevole nel Paese, ma residuale. Potrebbe anche essere stata la sua ultima corsa: molti suoi eletti, una volta installati in Parlamento, non potranno che cercare un migliore offerente. In questi casi si privilegia sempre la stabilità, una cosa che Salvini coi suoi contenuti esplosivi non può offrire. Bisogna guardare altrove (continua su TheVision)

Il secondo contenitore anonimo è il Movimento Cinque Stelle, che dopo aver perso il suo guru Gianroberto Casaleggio negli ultimi mesi ha divorziato persino da Beppe Grillo, e ha vinto le elezioni lo stesso. Ora in cabina di comando c’è Casaleggio Junior, che conosciamo ancor meno del padre: con lui però c’è stata un’evidente normalizzazione del Movimento. Anche la mossa – tanto criticata – della presentazione di una lista di governo mandava un segnale preciso: non siamo disfattisti, stavolta siamo pronti a governare e anche a collaborare. Alcuni ministri-ombra del M5S erano ex sostenitori di Renzi: più espliciti di così, Casaleggio e Di Maio non potevano essere.

Perché a sinistra del M5S c’è il terzo contenitore in cerca di identità: il Pd post-renziano. Quando Renzi lo rilevò, il Pd valeva 10 milioni di voti, che nel 2013 sembravano una batosta. Con lui al timone alle Europee dell’anno successivo volò al 40%, ma si trattò in parte di un effetto ottico: aveva preso appena un milione di voti in più. Per contro forse gli capitò di sopravvalutare la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, quando comunque più di 13 milioni di italiani votarono sì alle sue proposte di riforma. Il vero crollo è avvenuto nei mesi successivi e oggi l’elettorato del Pd si ferma davvero intorno ai 7 milioni, con intere porzioni dell’Emilia e della Toscana che lo abbandonano. Non si può nemmeno puntare il dito sugli scissionisti di Liberi e Uguali, che ambivano a un risultato a due cifre e non arriveranno al 4%. È tutta la sinistra, dalla più moderata alla più radicale, a essere sconfitta, malgrado i risultati non tutti disprezzabili ottenuti negli ultimi cinque anni. Il problema è che dall’altra parte c’era chi soffiava sulle paure più basilari, chi raccontava di un assedio e di un’invasione: su internet, certo, ma soprattutto in tv (e sui giornali, e sui libri).

In un qualche modo, Renzi pensava che avrebbe ovviato il problema forse soltanto grazie alla sua brillante personalità: in un primo periodo probabilmente fraintese la benevolenza con cui veniva trattato anche dai media berlusconiani, forse lo scambiò per fair play e lo diede per scontato. Renzi non è il primo leader della sinistra a farsi fregare dalla controparte, ma a questo punto sarebbe maramaldesco infierire. Di solito a quest’ora aveva già pronunciato uno di quei concession speech che appassionavano tanto i suoi ammiratori; per come si sono messe le cose faccio persino fatica a immaginare che riesca a restare in Parlamento, dove è stato eletto per la prima volta, ma a far cosa? Ad ascoltare gli altri che parlano? Si annoierà subito. Dopo la sconfitta al referendum, invece di ritirarsi come pure aveva promesso, ha trasformato il Pd nel suo comitato elettorale: ora, senza di lui, anche il Pd non è che un involucro in cerca di identità. Un Pd renziano non potrebbe mai allearsi col M5S: ma un Pd post-renziano, cosa avrebbe da perdere? Di Maio potrebbe limitarsi a imporre l’allontanamento di Renzi – la pelle di un orso già caduto. La base del M5S si lamenterebbe? Si è già visto durante le parlamentarie quanto poco i vertici M5S si preoccupino dei rumori della base e di Rousseau. E persino se ci fosse una piccola scissione, si potrebbe tamponare coi voti dei forzisti post-berlusconiani, anche loro in libera uscita. Tutto questo stamattina può sembrare fantascienza: ma anche un governo Pd + Forza Italia sembrava impossibile all’indomani delle elezioni di cinque anni fa: finché Enrico Letta non giurò al Quirinale. Se cinque anni fa è successo davvero, da oggi può succedere tutto. Almeno viviamo in tempi interessanti.

Chiedo scusa se non uso il tono depresso che è di prammatica, tra persone di sinistra (io sono di sinistra) ogni volta che la sinistra perde (perde anche quando vince, ma oggi perde proprio). Non so neanch’io perché non riesco ad abbattermi, forse ho sofferto troppo una sconfitta precedente e ormai non sento il dolore. Oppure mi ha tirato su il morale Potere al Popolo. È che a un certo punto della maratona notturna, dopo aver intervistato un frignosissimo esponente di Casapound che riusciva soltanto a recriminare di essere stato poco in tv, Mentana ha dato la linea al quartier generale di Potere al Popolo, una lista che ha preso appena il doppio di Casapound – non che il doppio di uno zero virgola sia un granché – ma evidentemente non se lo aspettavano: festeggiavano più loro dei leghisti. È che abbiamo bevuto, ha spiegato la portavoce Viola Carofalo: “e continueremo a bere”. Ecco, beviamoci sopra.
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Il voto è un gioco (anche quello utile)

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Le elezioni sono alle porte, lo senti nell’aria. Nelle scuole stanno già arrivando paraventi e scatoloni; su Facebook si ricomincia a parlare di “voto utile”. Ancora. Sì, ma stavolta non è come tutte le altre volte. Stavolta l’alternativa è il baratro, il caos, la fine della vita sulla Terra per come la conosciamo. I grillini (o i leghisti, o i fascisti, o qualche altro spauracchio) saliranno al potere, toglieranno l’obbligo vaccinale e moriremo tutti. Usciremo dall’Euro, dalla Nato, dall’emisfero boreale, verremmo sbalzati nello spazio profondo. Tutto questo senz’altro accadrà se non usiamo il nostro diritto di voto con responsabilità. Nella maggior parte dei casi si tratta di turarsi il naso e votare Pd. Forse esistono anche inviti al voto utile in altri schieramenti, ma sono fuori dalla mia bolla, non li vedo. Da che mi ricordi il voto ragionevole, il voto un po’ schifato ma necessario, è sempre stato quello per il centrosinistra. Il mio voto, per inciso (sì perché io al voto utile ci ho sempre creduto: si tratta se mai di mettersi d’accordo su quale sia l’utilità in questo momento).

Gli Utilitaristi del voto di solito amano mettere a fuoco un certo tipo di avversario dialettico, l’Anima Bella: quel tipo di elettore che concepisce il voto come l’espressione della propria identità (voto comunista/liberale/Berlusconi perché credo di essere comunista/liberale/Berlusconi). Per l’Anima Bella il risultato delle elezioni è un mezzo, non il fine. L’importante è non compromettersi, non sporcare le proprie nobili idee con la rude realtà – buffo, il voto in teoria è segreto, eppure molti lo vivono ancora come un pubblico atto di fede. “Io credo X, non chiedetemi di votare per Y”. È gente che ci tiene a farti sapere che non cede ai compromessi. Non sul luogo di lavoro quando il boss ti chiede uno straordinario, e nemmeno in famiglia quando si tratta di decidere dove andare in vacanza, no: l’unico posto in cui rifiutano i compromessi è la cabina elettorale. Per quanto possano risultare insopportabili, le Anime Belle sono necessarie: il giorno che riusciremo a farne a meno non sarà un bel giorno.
Per esempio: stavolta si vota anche per decidere come gestire la questione migranti nel Mediterraneo: non è poi così strano che a sinistra qualche Anima abbia difficoltà a sostenere il partito di Minniti. Sono anni che raccontiamo ai ragazzi che al momento della verità non potrai dire che hai soltanto obbedito agli ordini: magari qualcuno ci ha veramente dato retta e ora non riesce a votare per l’ordine e la disciplina, i respingimenti e gli annegamenti. Magari dovremmo spiegare nelle scuole che c’eravamo sbagliati, che tutto sommato certe volte voltare lo sguardo dall’altra parte è ok. Nel frattempo dobbiamo rassegnarci a conservare una certa quota di Anime Belle. Li abbiamo allevati, si vede che pensavamo che ci sarebbero stati utili (forse speriamo che salvino anche la nostra anima, forse non escludiamo di averne una).

A fianco dell’Anima Bella milita spesso il Messaggiatore, che ne è una specie di evoluzione postmoderna: non crede più di avere un’anima da salvare, ma senz’altro ha una reputazione da difendere sui social e nei capannelli di amici. Questa sua modernità percepita in realtà lo schianta: mentre l’Anima Bella è tutta contenta del proprio voto – un piccolo segno con cui ti metti a posto con l’umanità e forse con Dio che nel segreto dell’urna ti vede – il Messaggiatore ha studiato e fatto i calcoli e sa che il suo voto è un atto in teoria performativo, ma dal valore irrisorio. Un trentamilionesimo di sovranità popolare, una goccia nel mare, tanto vale stare a casa. A questa mediocrità, il Messaggiatore non si rassegna. Il mio voto non può davvero contare come quello di una pensionata di Sarcazzo di Sotto che mette la croce su Casa Pound perché crede sia un lista animalista e la tartaruga in particolare le è molto simpatica. Il mio voto sarà più importante perché… lo socializzerò (e socializzandolo, spero di poterlo moltiplicare). Il mio voto non sarà più importante in quanto cessione di sovranità, ma in quanto Messaggio. Non mi piace il modo in cui il Pd con Minniti ha di fatto avallato la criminalizzazione dei migranti nel Mediterraneo? Voto la Bonino che dei migranti ha sempre parlato tanto bene. Sì, ok, ma la Bonino vuole anche bloccare la spesa pubblica, il che potrebbe indirettamente portare a qualche altro taglietto di macelleria sociale: qualche altra fabbrica nel frattempo delocalizzerà all’estero, lasciando a piedi operai che disperati se la prenderanno coi migranti che abbattono il costo dei lavori più umili, e alla prossima tornata voteranno per chi i barconi dei migranti vuole accoglierli a cannonate, e non è pazzesco che quei poveracci che votano così male abbiano diritto a votare quanto te, che invece sei capace di ragionamenti così raffinati e speri… che la Bonino abbia bisogno del tuo voto per fare una sfuriata a Minniti. Non ti viene il dubbio che ti stiano un po’ prendendo in mezzo, la poliziotta buona e il poliziotto cattivo? Se vuoi davvero mandare un messaggio al Pd, perché non spedisci una cartolina? Scrivi uno status su Facebook, annoia i tuoi lettori sul blog, ce ne sono di modi più efficienti per mandare messaggi. Magari vuoi avvertire che il Pd si sta spostando troppo a destra, beh, di solito il Pd capisce l’esatto contrario: “a sinistra c’è disaffezione, proviamo ancora un po’ più a destra”. Che ottuso. Ma non è che si possa pretendere molto di più da un mucchio di crocette su fogli piegati in quattro... (continua su TheVision)
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Fuori dall'Italia i libri sacri anticostituzionali, dai

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Giura sul Vangelo, sfoggia un rosario: ma chi è questo nuovo integralista cattolico che avanza da destra? L’ex comunista padano, Matteo Salvini in un comizio a Milano ha giurato di “applicare davvero la Costituzione rispettando gli insegnamenti del Vangelo”. Un libro sacro e una costituzione laica possono andare d’accordo? Tutto sommato sì. È Salvini che non sembra c’entrare molto con entrambi: ce lo vedete nel Vangelo, a scacciare con la ruspa il Buon Samaritano? O tra gli apostoli a polemizzare con Gesù Cristo che rifiuta di prendere una posizione coerente contro l’Unione Europea del tempo, l’Impero Romano? Quanto alla Costituzione, basta aprirla a pagina uno: l’articolo 8 dice che tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge, ok, che problema c’è? C’è che appena una settimana fa Salvini, a “Speciale Fatti e Misfatti” (TgCom24), ha dichiarato che una volta al governo metterà “lo stop”, “il veto”, a “ogni presenza islamica organizzata, regolare o abusiva in Italia”. Insomma, se vince Salvini i musulmani non potranno né organizzarsi né nascondersi: dovranno levare le tende? Sono quasi due milioni, di cui trecentomila cittadini italiani: è difficile pensare che il leader leghista stia parlando sul serio. Il suo punto di vista merita comunque di essere discusso, se non altro perché è condiviso da una parte della popolazione ormai maggioritaria: “L’Islam è incompatibile con i nostri valori e la nostra cultura,” afferma. “L’Islam applicato alla lettera, il Corano applicato alla lettera […] sono atti di violenza”. Il che peraltro è vero.






Momenti di preghiera nelle città di Torino, Milano e Roma

Esatto, ho appena dato ragione a Matteo Salvini.
Applicare il Corano alla lettera sarebbe senz’altro un atto di violenza. Basta leggere qualche versetto, per esempio quelli sulla condizione femminile. È un libro che comincia con Allah che dice alla prima donna: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (GE 3,16). In un’altra sura si legge: “Dalla donna ha avuto inizio il peccato: per causa sua tutti moriamo” (SI 25,24); “se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza” (SI 25,26). Non è certo tra queste pagine che troveremo anche la minima ispirazione all’emancipazione femminile: (“Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo è una donna che mantiene il proprio uomo”) (SI 25,21).



Persino nella preghiera comune le donne sono ghettizzate: “Non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in pubblico” (CO I 14,34-35). Da queste pagine nasce anche il barbaro costume del velo: “L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Allah; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli” (CO I 11,5-10). Il profeta: non concede “a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo […] Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia” (TI I 2,12-15).






Se, malgrado tanta modestia e tante barriere, un uomo riuscisse comunque a vederla e a desiderarla, il consiglio del Profeta è dei più drastici: “Vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi organi, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna” (MT 5,28-29). Che altro dire? Il Dio del Corano è un Dio della guerra (“Non sono venuto a metter la pace, ma la spada”), determinato a portare la sua jihad fin dentro all’istituzione famigliare (“Sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera”). Un libro del genere, se applicato alla lettera, non può che ispirare atti di violenza e di prevaricazione.
Quindi Salvini ha ragione. Bastano anche solo i versetti che ho citato per dimostrarlo.

Salvo che... (continua su TheVision)
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Bagnai, il leghista che ti boccia in economia

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Sabato scorso, mentre un militante ed ex candidato della Lega si faceva arrestare a Macerata dopo aver ferito più di una mezza dozzina di residenti africani, e tutti si domandavano come avrebbe reagito Matteo Salvini io mi sono sorpreso a chiedermi: e Bagnai? Come la prenderà Alberto Bagnai?
Salvini poi non ci ha messo molto a farsi sentire, spiegando in sostanza che se aumentano i neri è normale che aumenti anche la gente che ci fa il tiro al bersaglio in strada. Non che ci si aspettasse da lui qualcosa di più fine: ugualmente c’è da domandarsi se si sia mai toccato un punto così basso, in una campagna elettorale, nella storia della Repubblica. Un tuo militante va in giro a sparare alle persone: è colpa delle politiche migratorie, ok. Nel frattempo Alberto Bagnai (economista e candidato al Senato per la Lega in Abruzzo, Lazio e Firenze) si limita a chiedere ai suoi seguaci di “ignorare le provocazioni”. Forse per puro caso, sul suo blog è campeggiata ancora per due giorni una domanda retorica formulata il giorno prima della tentata strage: L'immigrazione è la prosecuzione della deflazione con altri mezzi? 
Chi ha una minima familiarità con gli argomenti di Bagnai non può avere molti dubbi sulla risposta: sì, ovviamente i fenomeni migratori fanno parte di un più vasto complotto per indebolire l’economia italiana ‒ “Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui (dopo averci proposto come panacea la moneta altrui)”. Non è sorprendente che Bagnai parli così. Non è sorprendente che un leghista parli così.
Insomma qual è la sorpresa?
Che Bagnai sia un leghista?

Lui stesso nel suo blog ammette che chiedere a molti affezionati lettori di votare Lega sia imporre uno “strappo lacerante con la propria storia politica”. Eppure Bagnai è in buoni rapporti con Salvini almeno dalla campagna delle europee del 2014, quando non si candidò ma sostenne l’altro economista no-euro leghista, Claudio Borghi. Io stesso fatico a immaginarmi Bagnai seduto al Senato tra un Calderoli e un Bossi, ma perché? Perché ho visto le foto che qualcuno ha subito rimesso in giro, dove partecipa a un dibattito dietro a una falce e un martello? Lui in realtà è sempre andato ovunque lo facessero parlare, sinistra, destra. È semplicemente successo che i no-euro di destra fossero più numerosi, e meglio organizzati. E allora perché? Perché i suoi primissimi interventi in rete (poi rimossi) li ha scritti su Sbilanciamoci, un sito che era espressione di quella sinistra plurale e alternativa che veniva dai forum sociali dei primi anni Zero? Ma è successo molto tempo fa, e non si può nemmeno accusarlo di incoerenza: Bagnai era un antieuro già allora, e antieuro è rimasto. Oppure perché è un orgoglioso keynesiano, e di tutti gli economisti liberali, Keynes, con la sua visione anti-moralista della spesa pubblica, è quello che è sempre piaciuto più a sinistra? Ma, anche in questo caso, è stata semmai la sinistra al governo a rinnegare Keynes; a questo punto della storia se Bagnai calcola che nel centrodestra ci possa essere più spazio per una politica anti-austerità, chi sono io per dargli torto?

Più in generale, chi sono io?
Domanda meno inutile del solito. Sono un elettore di centrosinistra per educazione e inclinazione. Faccio parte di un spicchio sociale che una volta si chiamava “ceto medio riflessivo”, ma la definizione è andata in crisi da quando molti hanno seguito Beppe Grillo (non Bagnai: non ha mai appoggiato Grillo e i suoi). Sin da quando ho cominciato a votare, non mi è stato difficile capire da che parte stare: bastava individuare Berlusconi e votare per chi aveva più chance di batterlo. Quando Berlusconi è andato in crisi, ho dovuto ridefinire i parametri. È successo a molti come me, con risultati imprevisti. A un certo punto, credo verso il 2012, ne ho individuato uno che mi sembrava affidabile: il principio di realtà. Tra i politici (anche nuovissimi) che raccontavano le frottole, e i politici che non mi nascondevano la realtà (anche amara) avrei scelto i secondi. Questo tagliava fuori ovviamente oltre alle promesse berlusconiane, le nazioni padane e gli universi alternativi dei giovani cinquestelle, a base di scie chimiche, sirene e chip sotto-pelle. Da una parte le panzane, le bufale  (non le chiamavamo ancora fake news ma il concetto era già ben chiaro), dall’altra la scienza, la dura legge dello spread. Tutto molto chiaro: non fosse stato per Alberto Bagnai. L’unico elemento che non si lasciava inquadrare così facilmente.

Credo di avere scoperto l’esistenza del suo blog nel peggiore dei modi, attraverso l’intervista concessa a un altro grande avventuriero mediatico, Claudio Messora in arte Byoblu; il vlogger che non era ancora diventato un portavoce ufficiale del Movimento Cinque Stelle a Bruxelles (poi silurato). Per me in quel momento Messora era soprattutto il portavoce ufficioso di Giampaolo Giuliani, il tecnico aquilano che sosteneva di aver messo a punto un sistema per prevedere di terremoti. Il classico esempio di scienziato-come-se-l’immaginano-i-grillini: un artigiano geniale, osteggiato dall’università manovrata dai grandi capitali, che da solo in un piccolo laboratorio porta avanti la fiaccola della verità. Poi arriva Messora con videocamere e microfoni, produce un’ora di filmato, lo piazza in rete, e gli aquilani cominciano a scrivere al blog per chiedergli se quella sera è il caso di rincasare o di dormire in macchina.
Il fatto che dopo aver lanciato Giuliani come fenomeno su Youtube, Messora si fosse dedicato a Bagnai non poteva che ispirarmi una certa diffidenza nei confronti di quest’ultimo (e c’era la coincidenza geografica: anche Bagnai lavorava in Abruzzo, questa terra un po’ dimenticata dai riflettori che è la cornice ideale dove immaginare qualche genio esiliato dal malanimo e dall’invidia dei colleghi). All’italiano medio, proprietario di abitazione, terrorizzato dai terremoti, Giuliani diceva che le scosse erano prevedibili (bastava misurare il radon); all’imprenditore abbattuto dalla crisi e dalla concorrenza dei mercati emergenti Bagnai promette che il declino dell’Italia è reversibile (basta tornare alla lira). Entrambi insomma fornivano al lettore di Byoblu e Beppegrillo soluzioni apparentemente facili e praticabili a problemi molto più complessi: non teorie del complotto, ma elisir di lunga vita.

In realtà Bagnai – basta leggerlo – è un caso completamente diverso da quello di Giuliani. Per prima cosa non è un reietto della scienza: ha una cattedra a Pescara, collabora con istituti di ricerca in tutta l’Europa, pubblica paper, ostenta nei suoi scritti anche occasionali una robusta cultura umanistica, che mette a servizio di un’inesausta vena pedagogica. Bagnai non solo vuole dimostrarti di conoscere la sua scienza, l’economia, ma in un qualche modo è anche convinto che riuscirà a spiegartela, accumulando dati, teorie, tabelle, estrapolazioni, rimandi ad altri interventi, tutto un enorme corpus che evidentemente funziona: il suo blog, ancora con un semplicissimo layout di Blogspot, in quattro anni ha avuto più di tre milioni di accessi; anche i suoi libri sembrano vendere bene e le presentazioni sono sempre molto affollate.
Quando ho cominciato a leggerlo, Bagnai mi è risultato nello stesso tempo familiare e incomprensibile. Incomprensibile in quanto economista, e per quanto si sforzasse lui e ci provassi io, la materia era evidentemente troppo dura per me; familiare, perché per quanto economista, Bagnai è anche un blogger nato. Non importa quanto tardi si sia accostato allo strumento: la sua prolissità, la confusione creativa tra pubblico e privato, l’energia inesausta con cui si abbatte contro gli avversari; l’abilità con cui ha trasformato l’area dei commenti in una piccola comunità, una specie di corridoio di facoltà; sin dall’inizio il blog sembrava nato per Bagnai, e Bagnai per lui.



Certamente è anche per questo che non mi sono mai convertito al bagnaismo – per questo, e perché sono nato e cresciuto nel cortile di un capannone di una piccola impresa padana a conduzione famigliare, e l’idea che per tornare ai fatturati degli anni Ottanta basti recuperare la lira mi sembra davvero la proposta di un professore arrivato in paese col filtro dell’eterna giovinezza. Però, alla fine, io di economia non ne capisco niente. Non ho mai avuto gli strumenti per capire se la sua teoria fosse migliore di quella di chi difende l’unione monetaria e l’austerità; i blogger però li so riconoscere, e nel 2012 Bagnai mi sembrava troppo blogger per essere anche uno studioso autorevole. Non capivo le sue tabelle, ma la sua foga mi sembrava eccessiva. I suoi idoli critici scrivevano compassati nei quotidiani nazionali, lui strepitava da un blog: istintivamente diffidavo di chi sbraitava, ma non avevo proprio capito niente di comunicazione.
Oggi è normalissimo vedere un esperto, un professionista del suo settore, insultare sui social gli interlocutori non all’altezza: è stato anche coniato un verbo all’uopo, “blastare”, e soprattutto si è formato un pubblico, una comunità di persone che applaude il blastatore quando questo rischiara le tenebre dell’ignoranza con qualche insulto laser. Mentre sto scrivendo queste righe, su twitter incrocio Burioni che blasta qualche antivaccinista. Ecco: Bagnai forse è stato il primo professore-blastatore dell’internet italiana. Quella foga sanguigna che io trovavo sospetta, credo che sia stata il segreto del suo successo; molta gente cercava su internet non soltanto un elisir di lunga vita, ma un maestro severo, di quelli che la scuola non ti offre più. Non so che insegnante sia Bagnai dal vivo, ma sul blog è un mago: ti circonda con le parole e con i dati, ti soggioga, riesce a bacchettarti sulle dita con la sola imposizione della prosa. Alla fine non è così strano che Salvini abbia liberato un posto in Senato per lui. E allora, di nuovo: perché faccio fatica a crederci?

Perché anche se non mi sono mai convinto che il ritorno alla lira non possa che essere un disastro, in qualche anno di saltuaria frequentazione del blog un’idea me la sono fatta: Bagnai è davvero un intellettuale, nel senso migliore del termine: un intelletto vivo, e inesausto. Nel momento in cui chiede ai suoi sostenitori anti-euro di votare per la Lega, può davvero ignorare che Salvini il repertorio anti-euro lo tira fuori sempre più di rado, e in caso di vittoria del centrodestra alle elezioni probabilmente lo accantonerà per assumersi una responsabilità di governo? Bagnai è un economista fieramente keynesiano: non ha proprio niente da dire sulla flat-tax, la nuova ricetta miracolosa che nei comizi di Salvini ha ormai soppiantato il ritorno alla Lira? Bagnai, non lo manda a dire, è contrario all’“immigrazionismo”, “fase suprema del colonialismo”, ma non dimentica mai di ricordare ai suoi lettori che i profughi hanno diritto all’asilo: non immagina allora cosa succederà nel Mediterraneo, quando un uomo del suo partito si ritroverà al Viminale, come si trovò Maroni tra 2008 e 2010, quando i barconi venivano respinti al largo?
Bagnai, per chiuderla, ha tutti gli elementi per capire in che trappola sta cadendo: che se c'è una vaghissima possibilità che il centrodestra, una volta al governo, adotti la sua politica economica senza compromessi, ce n’è una molto più concreta che egli diventi lo specchietto da esibire a un elettorato di allodole no-euro; che le sue parole, fin qui fiorite così libere e sincere sul blog, vengano usate per giustificare le prossime stragi nel mare, o la prossima iniziativa di un pistolero disperato. Un rischio che non può non avere calcolato: è un economista, lui.
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Marco Minniti ha visto un mostro

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Marco Minniti è il ministro degli Interni. Già ai tempi di Renzi (e Letta), era sottosegretario con delega ai servizi segreti. Qua fuori magari c’è gente che si spaventa per un nonnulla, ma Marco Minniti, in virtù della sua posizione e della sua esperienza, è probabilmente la persona che conosce meglio di chiunque in Italia il quadro generale. Se fossimo alla vigilia di una rivolta di popolo, Minniti dovrebbe essere il primo a rendersene conto. Se fossimo alle soglie di una guerra civile, il primo a farsene un’idea dovrebbe essere lui. Tutto questo, che a noi può sembrare improbabile, se c’è qualcuno che può vederlo è Minniti.
Marco Minniti a un certo punto ha visto qualcosa di orribile. Qualcosa che nessun altro ancora ha visto, e che lo ha terrorizzato. E non ha terrorizzato un politico qualsiasi, uno di quelli che si allarmano per una sciocchezza e per mestiere; ha talmente preoccupato proprio Marco Minniti, da spingerlo a zelanti iniziative: a concludere accordi svilenti; a fornire, secondo Amnesty International, navi ai miliziani libici a cui è stato di fatto subappaltato il respingimento dei migranti; rinnegare quello che fino a qualche anno fa era considerato un tratto irrinunciabile della nostra identità nazionale: l’umanità. Tutto questo Minniti non può averlo fatto semplicemente per l’orgoglio di annunciare che quest’anno è sbarcato qualche migliaio di disperati in meno. O per spostare un po’ la lancetta dei sondaggi verso il centrosinistra. No. Se Minniti ha fatto quel che ha fatto è perché deve aver visto Qualcosa.
Lo aveva visto già sei mesi fa, lo ha ribadito ieri. Noi magari pensavamo che cinque milioni di stranieri residenti in Italia non costituissero un’invasione; che fossero, viceversa, quasi indispensabili al bilancio demografico e alla vitalità del Paese; che al netto del fenomeno della clandestinità, non delinquessero molto di più degli italiani; che contro di loro si stesse montando su tv e organi di stampa una squallida campagna di propaganda con evidenti finalità elettorali. Stolti che siamo stati. Se abbiamo creduto in tutto questo, è perché non abbiamo visto quello che hanno visto gli occhi da oracolo di Marco Minniti.
Deve aver scorto la sagoma di un mostro, tratteggiata in qualche rapporto top secret o sondaggio confidenziale: uno di quegli esseri impossibili alla Cloverfield, che è impossibile racchiudere in un solo sguardo perché sono più grandi di qualsiasi cosa, e sfidano ogni possibilità di essere descritti e definiti. Una Bestia assetata di sangue che in qualsiasi momento potrebbe sorgere dalle viscere dell’Appennino – basterebbe la minima sollecitazione, lo sbarco in Sicilia di appena qualche centinaio di stranieri in più. A quanto pare, però, questa orripilante creatura per ora si limita a far perdere la ragione a qualcuno. Ma ecco: se un leghista un po’ impressionato da quel che ha sentito al telegiornale si mette a girare per Macerata tirando a tutti gli afro-italiani che trova, Minniti se l’aspettava e non si è fatto trovare impreparato. “Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione”. Non c’è dubbio che la politica sia cambiata – quanta gente sia annegata a causa di questo cambio di politica, per contro, non lo scopriremo mai. La politica è stata cambiata, eppure questo non ha impedito a Traini di innervosirsi davanti a un Tg e di prendere la pistola in mano: oppure dobbiamo pensare che la tentata strage di Traini sia il male minore e che senza l’intervento di Minniti sarebbe successo qualcosa di molto più grave.
Qualcosa di più grosso ribolle nelle viscere di questo Paese e potrebbe risvegliarsi con un nonnulla, ad esempio una manifestazione antifascista. Il sindaco di Macerata ha chiesto ad ANPI, ARCI e CGIL di non venire a testimoniare la propria solidarietà ai feriti – un’attestazione di umanità che potrebbe infastidire la Bestia – e Minniti ha espresso soddisfazione. Ha anche aggiunto che in ogni caso è pronto a vietarle lui, le manifestazioni. A vietare anche una manifestazione antifascista. Promossa dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella città dove un leghista si è esercitato per mezza giornata al tiro all’africano, e poi si è fatto trovare coperto dal tricolore davanti a un Monumento ai Caduti. Ai nostri ciechi occhi tutto questo parrebbe alquanto paradossale.
Ma diciamo pure che non è successo niente di grave, niente di cui ci si debba troppo vergognare o per cui ci si debba troppo allarmare. Salvini ha già spiegato che sono cose che succedono se in giro ci sono troppi immigrati; Renzi è disposto ad ammettere che ci sia stato un po’ di razzismo nel deprecabile gesto di Traini, ma “non sa se chiamarlo terrorismo”:  come se quella parola potesse infastidire la Bestia.


Una Bestia che a questo punto davvero ci si domanda che contorni possa avere... (continua su TheVision)
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Liberi e non troppo uguali a Corbyn

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Compreremo ottomila case. Non è andato proprio per il sottile, Jeremy Corbyn, quando domenica scorsa Andrew Marr della BBC gli ha chiesto cosa avrebbe fatto il Labour per i senzatetto britannici. Potrebbe sembrare la classica promessa elettorale, salvo che le elezioni ci sono già state, ma a questo punto nel Regno Unito potrebbe succedere davvero qualsiasi cosa – qualcuno comincia a parlare di un secondo referendum sulla Brexit. L’approccio di Corbyn è quello di un solido marxista che dietro a ogni fenomeno riconosce la sagoma della lotta di classe: la polemica contro gli speculatori che lasciano le case sfitte in attesa che i prezzi risalgano è un suo tradizionale cavallo di battaglia. Dietro allo spot populista (compriamo subito ottomila case, nessuno dormirà più per strada) c’è quindi l’abbozzo di un programma sociale: daremo alle autorità locali il potere per requisire le abitazioni che non vengono deliberatamente immesse nel mercato. C’è l’identificazione di un nemico di classe: il proprietario che non vende o non affitta. Lui probabilmente non voterà Corbyn, e Corbyn senz’altro il suo voto non lo chiede.
Questa è forse la differenza più grande coi gentisti italiani: anche loro, ultimamente, in fatto di promesse non scherzano. Ma quando poi si chiede a Di Maio dove troverà la copertura per il reddito di cittadinanza, o a Berlusconi dove raccatterà i soldi per portare la pensione a mille euro (specie se nel frattempo Salvini pretende la flat tax), la risposta è sempre un po’ vaga. Il populismo italiano è un fenomeno trasversale che rifugge la lotta di classe e si basa sull’idea che da qualche parte esista un immenso tesoro, un serbatoio di risorse intatte a cui lo Stato ancora non ha attinto a causa della malignità dei suoi rappresentanti. “Aboliremo gli enti inutili!” propone Di Maio, forse senza sapere che se ne parla almeno da 40 anni e che molto è stato già abolito – ma non importa, da qualche parte probabilmente esistono ancora milioni di euro da redistribuire ai disoccupati. E poi, naturalmente, si possono mandare a casa i politici (che in effetti hanno sempre meno soldi per la campagna elettorale, e questo per ora sembra renderli più disperati e rapaci), e che altro c’è? Le banche avide (ma molto spesso sono in sofferenza), i dipendenti pubblici fannulloni (ma quanti saranno?), gli insegnanti che invece di fare 18 ore alla settimana potrebbero farne di più (ma ne fanno già molte di più) e, stavamo per dimenticarli, gli evasori fiscali. Ma di quelli Berlusconi, Grillo (e Casaleggio) hanno sempre parlato poco.
Ne parla più volentieri la sinistra – già, perché c’è anche una sinistra che andrà alle elezioni in Italia. Neanche a farlo apposta, poche ore dopo la dichiarazione di Corbyn è stato pubblicato il programma elettorale di Liberi e Uguali, il movimento che proprio dal Labour sembra avere copiato almeno lo slogan (“Per i molti, non per i pochi”). Si parla di alloggi per i senzatetto, nel programma di LeU?
Se ne parla, sì: e meno male, visto che i senzatetto che nel Regno Unito vengono considerati un’emergenza sono intorno ai quattromila, mentre in Italia l’Istat ne conta molti di più: cinquantamila nel 2014. Ciononostante l’argomento non scalda la campagna elettorale (i senzatetto non votano) e anche LeU dedica a tutta la questione della prima casa appena due righe al capitolo Welfare: “La crisi ha lasciato in eredità un enorme patrimonio immobiliare abbandonato che pesa sui bilanci delle banche. Dalla sua acquisizione, come abbiamo già detto, può venire una risposta importante all’esigenza di tornare a rendere effettivo il diritto alla casa”. Più su in effetti si era proposta “la creazione di un fondo pubblico per l’acquisizione dei crediti in sofferenza garantiti da immobili, da destinare all’edilizia popolare con affitti calmierati”. Sono proposte di buon senso, molto tecniche e che svelano un approccio piuttosto distante da quello di Corbyn. Per lui una bella casa sfitta è un’ingiustizia, e il fondo immobiliare che la possiede l’evidente nemico; per LeU il patrimonio immobiliare abbandonato “pesa sui bilanci delle banche”, un’espressione che tradisce un istintivo moto di pietà, del tipo “povere banche, che vi siete accollate la prima bolla immobiliare dal dopoguerra, in un qualche modo vi aiuteremo”.
In controluce, si indovina tutta la differenza tra le due storie: Corbyn è un virus vetero-marxista che è sopravvissuto nel Labour a ogni vaccino blairiano, fino a prendere il sopravvento. Mentre i Liberi e gli Uguali che si stringono intorno al cartellone di Pietro Grasso sono per lo più amministratori, che con le banche dei loro territori hanno un’antica familiarità: conoscono i loro limiti e non saprebbero chiamarle nemiche nemmeno quando si tratta di spararle grosse in campagna elettorale.Con tutto questo, da elettore di sinistra non mi sento davvero di poter fare lo schizzinoso:
Con tutto questo, da elettore di sinistra non mi sento davvero di poter fare lo schizzinoso... (continua su TheVision)
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Senza Sinistra Sulle Schede (Si Sopravvive) (Spero)

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Lo sapete che la sinistra è in crisi? Lo è più o meno da sempre, almeno nella narrazione dei quotidiani. Lo è per definizione: mentre la destra fa paura, sempre sul punto di svoltare, la sinistra è divisa, disorientata, eccetera. Serve un esempio? Questo è appunto il mestiere del commentatore. Trovare ogni tot giorni un esempio diverso.

Lo spunto dell’ultima settimana: pare che sulle schede elettorali, per la prima volta dopo tanti anni (ma quanti?) non vedremo più la parola “sinistra”. In realtà qualche fortunato avrà modo di vederla ancora, nel bollino col quale si presenteranno insieme i principali partiti trotzkisti italiani, che sono appena due. Folklore a parte, le formazioni di sinistra che hanno qualche chance di sbarcare in parlamento (Potere al Popolo, Liberi e Uguali) hanno rinunciato a mettere nel simbolo la parola che comincia per S. Quanto al PD, com’è noto, la “S” l’ha rottamata ben prima che arrivasse Renzi: già nel 2007, quando gli allora Democratici di Sinistra si fusero con i post-democristiani e centristi della Margherita. Risultato: a 22 anni dalle elezioni del ‘96 (in cui il partito più votato in Italia risultò proprio quello dei DS) gli elettori italiani non troveranno “sinistra” sulla scheda. È un fatto grave?

No.

Ma è interessante notare come viene raccontato, con quell’attenzione per il bicchiere mezzo vuoto che è necessaria a chiunque voglia parlare di sinistra (e quindi di crisi). Si dà per scontato che qualsiasi novità debba coincidere con qualcosa di negativo: se non c’è più la parola “Sinistra” ci stiamo senz’altro perdendo qualcosa. Qualcosa che c’era già, e quindi senz’altro è qualcosa di antico, e di nobile. Qualcosa che non riusciamo più a recuperare perché siamo in crisi. Nota: questo modo di pensare è in assoluto l’atteggiamento meno “di sinistra” che si possa immaginare. L’attenzione maniacale alle tradizioni antiche o presunte tali è quello che ci si aspetterebbe dalla destra: ma appunto, in Italia la destra si racconta in tutt’un altro modo. È scaltra, si annida, prolifica nell’ombra e al momento giusto prenderà il sopravvento. Se la destra rinunciasse all’improvviso al suo nome, i commentatori non penserebbero che è in crisi. Sagacemente suggerirebbero che si stia mascherando per ottenere più consensi. Il problema in realtà non si pone, perché la destra ha usato raramente la parola “Destra” sui suoi bollini elettorali. E invece, la Sinistra, l’ha usata poi così spesso?

Neanche tanto... (continua su TheVision)
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Al di là del Partito del Piacere

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C’è mai stata una campagna elettorale tanto simile a un saldo di fine stagione? Sarà che Berlusconi non ha più niente da perdere; sarà che il M5S ha più voglia di lanciare promesse assurde che di vincere (col rischio poi di doverle mantenere); sarà magari anche la stagione, la depressione post-natalizia; proprio mentre stiamo lentamente elaborando la delusione per non aver trovato sotto l’albero quello che desideravamo, ecco che arriva Di Maio con uno scrigno pieno di Reddito di Cittadinanza. Ma da dietro spunta Berlusconi e promette di togliere tasse per sei anni a chiunque ci assuma a tempo indeterminato, se le elezioni le vince lui. Quanto a Pietro Grasso, lui non vince di sicuro ed è un peccato, sennò potremmo tornare all’università gratis, magari riavere indietro i nostri vent’anni.


Intruppato in mezzo a questi favolosi personaggi da presepe, Matteo Renzi sembra l’imbonitore meno convinto. Si intuisce che anche lui vorrebbe partecipare al gioco; abolirci, che so, il canone in bolletta. Ma si trova inchiodato a un ruolo che non ha mai incarnato volentieri, ma che è il fardello di ogni leader italiano di Centrosinistra: il rappresentante del Principio di Realtà.

Proprio lui, che appena ieri era il più giovane: proprio a lui ora tocca il ruolo antipatico dell’adulto che fa due conti e scrolla la testa: mi dispiace, ma non ce lo possiamo permettere. Salvini vuole la flat tax? Un bel regalo ai ricchi, ma con che soldi? I Liberi e Uguali vogliono l’università gratis per tutti? Non sarebbe poi un’idea così fantascientifica, per esempio in Danimarca qualcosa del genere c’è, ma qui da noi manca la copertura (la Danimarca ci piace solo quando licenzia facile). Il Principio di Realtà, spiegava Freud, non è opposto al più infantile Principio del Piacere, ma ne è per così dire una versione più evoluta, modellata dalle stesse “pulsioni di autoconservazione dell’ego”: è come se per tutti noi venisse una specie di 7 gennaio della vita in cui capiamo che non possiamo alimentarci per sempre a torrone e pandoro. Dobbiamo in qualche modo accettare l’idea che esiste il diabete, esistono i lunedì, le tasse, i debiti e tutte queste cose orrende e insormontabili che compongono la dimensione chiamata realtà. Un momento del genere arriva persino per gli italiani, più o meno ogni otto/dieci anni: è l’unico momento in cui la sinistra ha qualche chance di vincere le elezioni. Peccato che dopo averle vinte non possa fare quasi nulla di sinistra...

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È facile ridere dei Liberi (e Uguali)

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È facile fare ironia su Liberi e Uguali – la nuova formazione politica tenuta a battesimo domenica scorsa – e molti osservatori infatti non hanno perso tempo. Tanto per cominciare è un raggruppamento di sinistra, e mentre la destra è per definizione inquietante e in crescita, la sinistra è sempre sventurata e in crisi. È una questione di percezione, che nulla ha a che vedere coi fatti o coi numeri (in questo momento i sondaggi danno a LeU qualche punto in più di Fratelli d’Italia, una formazione di destra che ha una storia altrettanto travagliata).
Quando si parla di sinistra non ci si stanca mai di rivangare i dissidi, le scissioni, i partitini che fanno più notizia quando si spaccano di quando si ricompattano. In effetti LeU raccoglie i cocci di tre piccole scissioni del PD: i fuoriusciti di quest’anno che hanno creato il Movimento Democratico Progressista Articolo Uno; i civatiani di Possibile che erano usciti già nel 2015; il gruppo di Fassina, che nello stesso 2015 aveva formato Sinistra Italiana con i vendoliani di Sinistra Ecologia Libertà, partito che a sua volta nasceva da due microscissioni in seno a Rifondazione Comunista e PCdI, e dalla fusione con alcuni ambientalisti – ma a questo punto probabilmente vi siete persi, servirebbe un disegno e su internet ce ne sono di divertentissimi. Il disegno poi si potrebbe prolungare andando indietro nel passato fino al 1989 – ma anche al 1968 – ma anche al 1890, perché il frammentarismo della sinistra ha radici antiche, e al di là delle facilissime ironie è un fenomeno strutturale: se la sinistra è il luogo (mentale) della libertà e del confronto, è abbastanza logico che sia anche il luogo delle divisioni, dei dissidi, degli scazzi – chi preferisce obbedire a un capo può andarsene a destra, dove scissioni e scazzi ci sono comunque, ma fanno meno notizia.
 



(Ho scritto un pezzo per TheVision, si chiama proprio È TROPPO FACILE FARE IRONIA SU LIBERI E UGUALI).

È facile ridere di Liberi e Uguali, magari facendo notare la contraddizione tra l’impostazione progressista e l’età media degli esponenti più importanti: Pietro Grasso, nominato leader per acclamazione, ha 73 anni. Massimo D’Alema, condannato dal suo personaggio a impersonare l’eminenza grigia della situazione, ne ha 68. Pierluigi Bersani 66. La sinistra non la dovrebbero fare i giovani? Sì, e infatti tra i Liberi e Uguali ci sono anche Giuseppe Civati (42) e Roberto Speranza (38). Il fatto che gli anziani siano più spesso inquadrati è in parte un effetto ottico: i giornalisti discutono più facilmente di e con personaggi che sono già stati a lungo sotto i riflettori. Fino a qualche anno fa questa era la prassi in tutti i partiti dell’arco costituzionale: poi sono arrivati i grillini e i rottamatori renziani, e oggi, guardando un notiziario, è più facile imbattersi in un politico quarantenne che in un sessantenne. Berlusconi è ovviamente un’eccezione, e la sinistra è un’altra – ma quest’ultima è un’eccezione tutt’altro che italiana: Jeremy Corbyn, leader dei laburisti inglesi, ha la stessa età di D’Alema; Bernie Sanders, agguerrito candidato di sinistra alle primarie del Partito democratico USA, ne ha tre più di Pietro Grasso. Anche loro sembravano rispettabili “vecchietti”, con entrambi i piedi nella terza età, prima di svelare un carisma d’altri tempi appena la campagna elettorale è entrata nel vivo: a Grasso potrebbe succedere la stessa cosa? Vedremo. Senz’altro sinistra e giovinezza non sono più sinonimi, ammesso che lo siano mai stati. Se non lo sono in Gran Bretagna o negli USA, non c’è motivo che lo siano in Italia, dove gli elettori da (ri)conquistare hanno un’età media ancora maggiore.

È semplice fare ironia su Liberi e Uguali, non solo insistendo sull’età dei protagonisti, ma anche sui loro trascorsi; con l’importante eccezione di Grasso, che fino a cinque anni fa faceva il magistrato, quello che accomuna D’Alema, Bersani, Civati, Speranza, Fassina e compagnia sono le sconfitte. È gente che ha perso quasi sempre e quasi tutto – a volte con onore, ma a sinistra “con onore” non significa poi molto, contano i risultati. Non parliamo soltanto di sconfitte elettorali (contro Berlusconi in parlamento, contro Renzi nel PD). Parliamo anche di sconfitte strategiche: D’Alema si fece prendere in giro da Berlusconi con la bicamerale del 1997, Bersani si fece prendere in giro dai grillini con il famoso vertice in streaming del 2013; anche Civati deve aver commesso qualche errore se nel 2010 era uno dei leader della Leopolda con Renzi e oggi non è nemmeno più nel PD. E così via. È semplice immaginare Liberi e Uguali come un raduno di rancorosi, ognuno a suo modo animato da un proposito di rivalsa, se non di vendetta. E le cose potrebbero anche essere così: alla fine la politica è fatta dagli uomini, e gli uomini sono fatti anche delle loro debolezze.

Allo stesso tempo, se insistiamo troppo sulle debolezze, rischiamo di perderci molto. Oltre alle mille motivazioni personali che possono spiegare la longevità di alcuni personaggi, alla base della nascita di Liberi e Uguali c’è un ragionamento lineare: a sinistra di Renzi c’è molto spazio da riempire. Quanto? Diamo un’occhiata agli altri Paesi dell’Europa occidentale. In Germania la Linke è quasi al 10% – molti voti li sta erodendo ai Socialdemocratici, che da più di dieci anni scontano l’alleanza elettorale con i Cristiano-Democratici della Merkel. In Francia il partito di sinistra di Mélenchon in Parlamento ha ottenuto appena il 3%: in compenso il suo leader col 19% di voti al primo turno ha mancato di appena due punti percentuali il ballottaggio presidenziale. In Gran Bretagna c’è un sistema elettorale molto diverso, che ha dissuaso la sinistra laburista da qualsiasi tentazione scissionista; il risultato però è che dopo tante sconfitte, oggi la sinistra controlla il partito. In Spagna il successo improvviso di Podemos (che nel 2016 valeva il 20% dell’elettorato) è un caso a parte, forse più affine all’affermazione altrettanto improvvisa del Movimento Cinque Stelle in Italia. In Grecia, anche grazie al super-premio elettorale, Syriza è al governo ormai da tre anni – tre anni di crisi nerissima in cui il primo ministro Alexis Tsipras non si è esattamente potuto permettere una politica antiliberista, ma tant’è. Syriza, per altro, è un bell’acronimo che nasconde all’osservatore distratto una tipica storia di frazionismo di sinistra: la sigla sta per “Coalizione della Sinistra Radicale”, e il suo percorso cominciò nel 2004 con una piattaforma programmatica che mise insieme cinque piccoli partiti marxisti, altermondialisti ed ecologisti.

Insomma, per quanto possano sembrare ridicoli e incerti i primi passi di Liberi e Uguali, bisogna riconoscere che anche le più recenti storie di successo della sinistra europea sono iniziate così: frammenti di esperienze passate che tornano assieme, trovano leader che a volte sono facce nuove (Tsipras, Iglesias) e altre volte decisamente no (Corbyn), e occupano uno spazio esistente. Perché – e questo va sempre ricordato – uno spazio a sinistra esiste ancora, e se non lo occupa Grasso lo occuperà qualcun altro. Anche Di Maio, perché no? Non è un caso che di recente abbia proposto di reintrodurre l’articolo 18. Non sarà l’argomento più trendy, ma c’è una fetta di elettorato che è sensibile esattamente a queste proposte: fanno meno notizia di due o tre bande di esaltati in bomber nero che lanciano fumogeni sotto le redazioni dei giornali o disturbano le assemblee, ma sono pur sempre due, tre, magari quattro milioni di potenziali elettori in più. E non si capisce nemmeno perché dovrebbero diminuire in futuro – soprattutto se il PD di Renzi si dovesse ritrovare costretto dopo le elezioni a un governo di coalizione col centrodestra di Berlusconi: proprio la situazione in cui di solito i voti travasano dal centrosinistra di governo alla sinistra di opposizione. Quanto allo scenario alternativo – un’eventuale alleanza di governo tra il M5S di Di Maio e LeU, fin qui sembra soltanto un bluff pre-tattico: difficilmente l’elettorato grillino potrebbe mandare giù la contiguità con personaggi che Beppegrillo.it addita al pubblico ludibrio da sempre (quando Bersani avverte di essere ancora disponibile allo streaming, rasenta il comico, non si sa quanto involontario). Allo stesso tempo, è bastato annunciare la nascita di un nuovo soggetto a sinistra perché l’articolo 18 tornasse un argomento elettorale anche per i grillini: la politica si fa anche così. Non sempre si vince, anzi, mai, ma a volte riesci a portare i vincitori nel tuo campo. Sarebbe già molto (per la sinistra italiana).
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